Analisi critiche e proposte di soluzione non sempre sono tra loro coerenti o praticabili. Il tema della “decrescita” ha segnato un periodo, attirando molte obiezioni e altrettante illusioni. Ma l’analisi del “paradosso ecologico” interno all’innovazione tecnologica gestita capitalisticamente, contenuta in questo testo, è senza dubbio un passo preliminare indispensabile.
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Il potere di avanzamento della tecnologia e la riduzione dei suoi costi di produzione hanno creato un ecosistema di tecnologie digitali interdipendenti che sostengono la trasformazione digitale.
Secondo l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE)[1], questo ecosistema si evolverà e, in futuro, continuerà a guidare il cambiamento economico e sociale.
Attualmente l’ecosistema è sostenuto dall’internet delle cose (IoT nell’acronimo inglese), dalle reti wireless di prossima generazione (5G), dal cloud computing, dall’analisi dei big data, dall’intelligenza artificiale, dalla blockchain (o catene di blocchi) e dal calcolo ad alte prestazioni, anche se le tecnologie che modellano l’evoluzione dell’ecosistema sono destinate a cambiare nel tempo.
Si dice che davanti a noi abbiamo una rivoluzione. Tuttavia, è altrettanto facile sostenere che sembra una nuova evoluzione della stessa cosa: il capitalismo ha trovato nuova vita con le tecnologie digitali.
In una continuazione delle pratiche estrattive e colonialiste, questa volta le tecnologie digitali rivendicano l’esperienza umana come materia prima gratuita da tradurre in dati comportamentali. La nuova “rivoluzione” si chiama Quarta Rivoluzione Industriale e, per le aziende che ne beneficiano, suona come una rivolta felice.
Le aziende possono ora sfruttare ogni nostro passo quotidiano senza nemmeno fare affidamento sul fatto che accendiamo o meno i nostri dispositivi: le “città intelligenti” e tutti i nostri comportamenti mediati da “dispositivi intelligenti” (IoT) possono essere trasformati in dati, elaborati da più aziende e venduti nei mercati dei futuri comportamenti che, al di là degli annunci online mirati, si estendono a molti altri settori.
Ma le rivoluzioni richiedono velocità. Un senso di urgenza sta contagiando gli Stati dormienti che mancano di idee a favore del benessere sociale di massa. L’iniziativa nelle politiche pubbliche è ora dettata dal settore privato che, con un respiro di sollievo, chiede ai governi di facilitare la “trasformazione digitale”.
È una situazione vantaggiosa per entrambi: le aziende private avranno infinite miniere di dati (di ognuno e ognuna di noi) e gli Stati potranno avere una maggiore produzione e quindi migliori quote di crescita.
Il cambiamento climatico come opportunità di fare affari
La trasformazione digitale ha ricevuto una spinta inaspettata e drammatica poco più di cinque anni fa. Il 12 dicembre 2015, nella Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici di Parigi (COP21), le parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) hanno raggiunto un accordo storico per combattere l’emergenza climatica e per accelerare e intensificare le azioni e gli investimenti necessari per un futuro sostenibile e a basse emissioni di carbonio.
Mitigare il cambiamento climatico significa ridurre il consumo di energia, principalmente attraverso la creazione di un sistema di energia rinnovabile.
L’Accordo di Parigi si riferisce esplicitamente all’innovazione nell’articolo 10, paragrafo 5.
Inoltre, per sfruttare appieno il potenziale delle tecnologie per il clima, l’UNFCCC afferma che è cruciale innovare e usare “tecnologie rivoluzionarie” in altri ambiti per migliorare le nostre vite “come la nanotecnologia, le catene di blocchi (o blockchain), l’internet delle cose e altre tecnologie di comunicazione e informazione.”[2]
L’UNFCCC (Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici) ci ricorda anche che l’innovazione tecnologica deve essere inclusiva ed equa per ottenere il massimo impatto.
Secondo Rieger[3], ci sono teoricamente tre modi in cui le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) conducono alla dematerializzazione (intesa come diminuzione dell’uso delle risorse). Da un lato le ICT porterebbero alla dematerializzazione sostituendo i beni materiali con quelli virtuali, per esempio sostituendo le copie fisiche degli album musicali con copie digitali.
D’altra parte, il settore delle ICT ha un impatto ambientale minore rispetto a molti altri ambiti. A seconda dei settori economici che sostituisce, la sua crescita potrebbe ridurre le emissioni totali dell’economia nel suo insieme.
Infatti, la sostenibilità è stata identificata come uno dei principali benefici dell’economia digitale, specialmente nei processi di produzione, dove l’allocazione delle risorse (prodotti, materiali, energia e acqua) può essere resa più efficiente attraverso una gestione intelligente che utilizza varie tecnologie. Infine, l’uso diffuso di queste tecnologie aumenterebbe l’efficienza energetica e delle risorse.
Secondo un rapporto commissionato alla società privata Accenture dalla Global e-Sustainability Initiative (GeSi), le ICT possono permettere una riduzione del 20% delle emissioni globali di CO2 entro il 2030, mantenendole ai livelli del 2015: “Questo significa che possiamo potenzialmente evitare il dilemma tra prosperità economica e protezione ambientale”.[4]
Il paradosso ecologico dell’economia digitale
È tuttavia essenziale capire che gli effetti benefici delle ICT – ridurre il consumo di energia e facilitare il passaggio alle energie rinnovabili – devono essere valutati rispetto agli effetti dannosi diretti del nostro passaggio a un’economia digitale. Tra questi ci sono le emissioni dovute all’aumento della produzione, dell’uso e dell’eliminazione delle ICT. In altre parole, dobbiamo considerare il costo materiale dell’immaginario etereo della digitalizzazione.
Si riconosce che l’evoluzione dell’ecosistema tecnologico che sostiene l’economia digitale va accompagnata da un insolito aumento del consumo di energia. Tuttavia, questa relazione positiva tra digitalizzazione e consumo di energia non esiste in tutti i paesi e in tutti i settori energetici. Per affrontare queste criticità fondamentali nei sistemi e nei dispositivi di telecomunicazione, è stata sviluppata una visione olistica chiamata “comunicazione verde”, che mira ad aumentare l’efficienza energetica su tutta la scala delle reti di comunicazione e informatica.[5]
Per esempio, tra le altre tecnologie, ci sono sforzi per diminuire il consumo di energia nella diffusione del 5G e nei data center. Anche se l’efficienza energetica è in aumento da decenni nel settore delle ICT, le promesse di ridurre il consumo di energia attraverso la digitalizzazione non sono ancora state comprovate. Secondo un recente studio di Lange et al., “la digitalizzazione demolisce il suo stesso potenziale” per ridurre la domanda di energia.
Inoltre, come mostrano recenti risultati sulla dematerializzazione e le ICT in Europa:
“Sebbene la dematerializzazione si sia probabilmente verificata in specifici settori dell’economia – ne sono esempi la digitalizzazione di musica, libri e film, così come l’aumento del telelavoro, delle teleconferenze e la diffusione del commercio online – si tratta ancora di un cambiamento limitato che non ha avuto un impatto sul consumo nel suo complesso”.[6]
Questo paradosso prodotto dall’aumento della produzione, dell’uso e dello smaltimento delle ICT ha anche un impatto diretto sulla gestione dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE), o rifiuti elettronici.
La miniaturizzazione, l’obsolescenza dei dispositivi e la maggiore versatilità dei dispositivi (ad esempio con la nuova generazione di dispositivi compatibili 5G) hanno contribuito alla ridondanza dei dispositivi più vecchi. Secondo Forti et al.[7], il peso totale del consumo globale di apparecchiature elettriche ed elettroniche aumenta in media di 2,5 milioni di tonnellate ogni anno, anche escludendo i pannelli fotovoltaici. Inoltre, nel 2019, il mondo ha generato una quantità impressionante – 53,6 milioni di tonnellate – di rifiuti elettronici, una media di 7,3 kg pro capite.
Si stima che 57 miliardi di dollari di materie prime secondarie fossero presenti nei RAEE generati nel 2019. L’estrattivismo urbano cerca di recuperare materiali secondari e di ridurre l’esaurimento delle materie prime primarie.
Tuttavia questo non è sempre fattibile, soprattutto perché produce inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo a causa degli effluenti provenienti da attività di riciclaggio spesso informali. Inoltre, la progettazione dei dispositivi per facilitare il loro successivo riciclaggio rimane una scommessa.
Ci sono anche da tenere in considerazione i costi ecologici dell’estrazione di materie prime per fabbricare la nuova generazione di dispositivi tecnologici, tecnologie verdi comprese.
I conflitti politici, ambientali e culturali creati dall’“estrattivismo verde”, che non fa che approfondire il divario economico tra paesi sviluppati e non sviluppati, dovrebbero essere un serio indicatore dei costi reali dell’innovazione e, soprattutto, di chi finisce per pagarne il prezzo.
Anche l’essere umano fa parte del paradosso ecologico in questa catena estrattiva. Più le tecnologie diventano efficienti più gli esseri umani saranno sfruttati come materia prima, poiché siamo le fonti del surplus del capitalismo di sorveglianza. I costi materiali della digitalizzazione vanno oltre l’uso delle risorse naturali, includendo anche l’estrattivismo umano.
Tuttavia, le conseguenze di ciò sull’ambiente devono ancora essere esaminate. Per ora si può sostenere che, come parte del ciclo del capitalismo, lo sfruttamento dei nostri dati è in parte motivato dalla promozione del consumo infinito nelle economie digitali.
Tecnologia per una trasformazione socio-ecologica egualitaria
In linea con i concetti egemonici dell’economia digitale, l’emergenza climatica è, piuttosto che una crisi senza precedenti prodotta dal Capitalocene, un’opportunità di business. Questo ha portato a una visione neoliberale depoliticizzata che domina le attuali tecnologie.
Il loro progetto e il loro impiego cercano di risolvere problemi strutturali di sostenibilità con la mera efficienza e produttività, allineandole con politiche di austerità. La logica dell’estrattivismo puro applicata alle tecnologie è contraria a qualsiasi norma etica post-umana e apre la strada a orrori come l’“apartheid climatica”.
In tempi urgenti del Capitalocene è imperativo creare tecnologie alternative; ma invece di concepire gli hackerspaces o le imprese open source come tentativi degni ma individuali che galleggiano in assenza di un orizzonte politico, la sfida è che le tecnologie digitali siano impiegate in una configurazione socio-economica e socio-ambientale qualitativamente diversa, che non sia solo “meno delle stesse cose”. In questo contesto è forse il momento di esplorare criticamente il progetto di decrescita.
La decrescita è un progetto di trasformazione socio-ecologica radicale ed egualitaria che mira a decolonizzare l’immaginario sociale della ricerca della crescita senza fine. Come affermano Mastini et al., la decrescita cerca una riduzione equa della produzione con una conseguente garanzia di benessere.[8]
La loro ipotesi è che il PIL possa diminuire e che, tuttavia, la qualità della vita possa migliorare. Da questo punto di vista, il capitalismo e il suo paradigma di crescita economica ci hanno portato a un limite planetario in cui non è possibile ridurre le emissioni di carbonio alla velocità necessaria.
Inoltre, basandosi sulla storia, la decrescita rifiuta l’idea che il solo dispiegamento di energie rinnovabili sia sufficiente a sostituire i combustibili fossili nella produzione di energia dato che, per esempio, la scoperta del petrolio come fonte di energia non ha sostituito il carbone.
Il paradigma della decrescita è ancora agli inizi e molto resta da fare, compreso il ruolo fondamentale che le tecnologie devono avere in esso. Inoltre, la transizione alla decrescita deve essere pianificata come uno sforzo planetario e partecipativo per evitare disuguaglianze strutturali.
Con tutte le sue infinite sfide, la decrescita può essere uno stimolo per i tecnologi, la società civile, il mondo accademico, i governi e le imprese ad allontanarsi dalla logica estrattivista e dare forma a un’economia digitale sostenibile.
L’umanità non ha tempo da perdere. Se vogliamo sopravvivere come specie, abbiamo bisogno di una innovazione strutturale. Abbiamo bisogno di situarci su una soglia diversa dove umani e non umani, comprese le macchine intelligenti, possano coesistere in modo solidale di fronte alle sfide di un pianeta che, ci piaccia o no, è già irrimediabilmente diverso.
Tratto da America Latina en Movimiento, “Tecnologia e Medio Ambiente. Respuestas desde el Sur”, n. 554, novembre 2021, pp. 2/6.
Traduzione in italiano di Marina Zenobio per Ecor.Network.
Paz Peña è una consulente indipendente e un’attivista nell’intersezione tra tecnologia, femminismo e giustizia sociale.
NOTE:
1) OECD Going Digital: Shaping Policies, Improving Lives. OECD Publishing, 2019.
2) UNFCCC, Technological Innovation for the Paris Agreement: Implementing nationally determined contributions, national adaptation plans and mid-century strategies, 2017.
3) Rieger, A., Does ICT result in dematerialization? The case of Europe, 2005-2017, Environmental Sociology, 7(1), 64-75, 2020.
4) GeSI, #SMARTer2030: ICT Solutions for 21st Century Challenges, 2015.
5) Lange, S., Pohl, J., & Santarius, T. , Digitalization and energy consumption. Does ICT reduce energy demand? Ecological Economics, 176, 2020.
6) Rieger, A. (2020). Op. cit.
7) Forti, V., Baldé, C. P., Kuehr, R., & Bel, G., The Global E-waste Monitor 2020: Quantities, flows and the circular economy potential, UNU/ UNITAR – co-hosted SCYCLE Programme, ITU & ISWA, 2020.
8) Mastini, R., Kallis, G., & Hickel, J. , A Green New Deal without growth?, Ecological Economics, 179, 2021
Fonte
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