Due episodi tra loro slegati, avvenuti a distanza di tempo l’uno dall’altro, mi spingono a stendere le seguenti considerazioni sulle crisi che attraversano l’universo scolastico e a proporle a questo giornale.
Il primo riguarda quanto avvenuto in sede di Collegio docenti in una scuola, di cui non citerò né il nome né la città per ragioni che possono ben essere comprese, e durante il quale il Dirigente scolastico sottoponeva al Collegio l’adozione della strategia del piano “Scuola 4.0” (punto 3.2 del PNRR) necessaria per ottenere i fondi previsti per interventi di rinnovamento tecnologico dei laboratori e delle aule e per l’istituzione di figure specifiche (pedagogiche, tecniche, operative) per l’attuazione pratica della strategia e per l’orientamento scolastico.
Durante la lunga discussione prima della votazione un rappresentante della RSU (afferente al sindacato “maggiormente rappresentativo” all’interno dell’istituto) interveniva con un discorso di principio contro la visione neoliberista sottostante all’impianto del PNRR che contrastava i principi di emancipazione sociale che la scuola della Costituzione dovrebbe garantire.
Rispondendo alla RSU, il Dirigente scolastico faceva notare che, pur approvando in linea di principio le finalità sociali sottostanti al dettato costituzionale sulla scuola, l’intervento era fuori luogo perché ideologico (suppongo per il riferimento al neoliberismo) e perché la votazione richiesta era necessaria (pro forma) altrimenti non si sarebbe potuto perfezionare l’iter procedurale che aveva portato all’approvazione di progetti per “migliorare la scuola” (si tratta di ammodernamenti tecnologici e interventi contro la dispersione scolastica e l’orientamento, per una somma che si aggira intorno al mezzo milione di euro per la singola scuola. I dati di tutte le scuole sono disponibili on line).
Di fronte a queste somme, vuoi perderti in questioni ideologiche e di principio? L’approvazione quasi bulgara fa cadere nel vuoto quel discorso politico e “ideologico”.
Il secondo episodio è relativo a uno striscione affisso sui muri esterni della scuola da un’organizzazione studentesca fascista (di cui non faccio il nome per non farle pubblicità) che recita “Rovesciare la scuola dell’omologazione”.
A leggerlo veniva da sorridere, perché la destra fascista, a parte il razzismo e il nazionalismo, storicamente non ha mai avuto argomenti originali sul fronte sociale, ma si è sempre appropriata del lessico e delle parole d’ordine del movimento operaio, socialista e comunista, svuotandoli del loro significato originario.
Un esempio ne sono le stesse etichette politiche “fascismo” e “nazional-socialismo”, in cui si ruba letteralmente la terminologia socialista (si ricorderà che i “fasci” erano inizialmente organizzazioni di lavoratori ampiamente richiamantesi al socialismo di fine Ottocento). Vale lo stesso discorso anche per la “rivoluzione fascista”, l’odio per “l’imperialismo” delle plutocrazie, l’“Italia proletaria”, ecc.
La lotta contro la “scuola dell’omologazione”, proclamata da chi si ispira al movimento politico che ha coniato il motto “libro e moschetto fascista perfetto”, sembra davvero un controsenso. Non solo. Ma andare a rispolverare uno slogan che richiama il movimento studentesco degli anni Sessanta, che non poteva certo richiamarsi al fascismo, appare un’altra operazione di svuotamento di senso del lessico politico della sinistra.
Certo, anche il neoliberismo lotta da mezzo secolo contro la scuola dell’omologazione, quella nata col fordismo (si rimanda alle pagine di Antonio Gramsci in Americanismo e fordismo), e non certo perché improvvisamente aveva assunto la visione libertaria del pedagogista austriaco anarco-cristiano Ivan Illich, il quale, proprio quando iniziava l’assalto liberista a livello mondiale alla scuola tradizionale, sosteneva che per creare una società non omologata occorreva “descolarizzare la società”, vedendo nella scuola l’origine dell’omologazione sociale.
In realtà il tramonto della società fordista, basata sulla concentrazione produttiva incarnata dal grande stabilimento di fabbrica e sull’organizzazione manageriale verticistica (detto con due immagini architettoniche: Mirafiori e il Pirellone), ha reso obsoleto quel modello di scuola fortemente omologante nelle sue funzioni operative.
Di fronte alla frantumazione produttiva che ha raggiunto il suo massimo sviluppo con la globalizzazione liberista degli ultimi trent’anni, si è cercato di “flessibilizzare” la scuola per conformarla (e omologarla...) al mercato del lavoro, esso stesso flessibile, precario e fluttuante.
Se non si tiene presente questo passaggio, non si capirebbe l’importanza data alle “competenze”, che altro non indicano quale livello di capacità adattiva (la c.d. “occupabilità”) ha raggiunto il futuro lavoratore che deve immettersi in un mercato del lavoro sempre più competitivo (per il restringersi dei posti di lavoro disponibili).
Di fronte a questi processi semi-secolari, si infrangono definitivamente visioni politiche come quella della “scuola della Costituzione”, che aveva un senso fintanto che era ancora viva l’opzione del socialismo nel mondo, la quale, checché se ne possa dire, fungeva da sponda internazionale a ogni movimento politico e sindacale di sinistra.
Così come si infrange la critica anarcoide alla scuola dell’omologazione, ormai svuotata di senso e per ciò riassorbibile prima dalla visione neoliberista e infine dai Qui Quo Qua del fascismo nostrano.
La crisi di prospettive produce crisi politiche e confusioni ideologiche, tipiche delle fasi di crisi più generali che preludono a transizioni storiche di vasta portata e investono la società a diversi livelli.
Sarebbe ora di abbandonare visioni e parole d’ordine che sono state destituite di valore dagli stessi processi sociali, economici e culturali e che rischiano di alimentare quella medesima confusione che è diventata parte del problema.
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