I principali responsabili della situazione che si è venuta a creare dal 15 aprile in Sudan sono l’Occidente i suoi alleati nella penisola araba.
In sintesi, sono responsabili tutti i soggetti particolarmente interessati a “sabotare” il processo di ricomposizione dei conflitti nella regione, che sta avvenendo grazie all’opera diplomatica di Cina, Russia ed Algeria. Per interessi diversi, certo, non per “bontà”. Ma nella politica internazionale questo è il principio-base.
La lotta “senza quartiere” scatenatasi dal 15 aprile tra il generale Abdel Fattah Abdelrahman Al-Burhan, alla testa dell’esercito del Paese (le Forze Armate Sudanesi), ed il suo “vice” – il generale Mohamed Hamdan Dagalo, “Hemeti”, capo delle RSF (note anche come janjāwīd) – è il prodotto sia del mancato processo di transizione (“congelato” dalla sete di potere dei due alti ufficiali e dei paesi con i quali hanno intrecciato i loro legami), sia delle necessità di realpolitik delle cancellerie occidentali per ipotecare il futuro del Sudan ai propri progetti neo-coloniali, o dei piani dei vari attori regionali.
Di fatto il regime di Al-Bashir si è perpetuato anche dopo la sua defenestrazione, nell’aprile del 2019, mantenendo come perni gli apparati di potere che ne erano stati – fino all’insurrezione popolare iniziata alla fine del 2018 – la maggiore assicurazione sulla vita.
Si è passati da un regime dittatoriale di matrice ‘fondamentalista islamica’ ad una dittatura militare travestita da incubatrice della ‘transizione democratica’, senza che alcun problema venisse realmente risolto.
Il casus belli – che non è la sola ragione del conflitto – è stato offerto dalla difficile integrazione delle RSF (tra gli 80 ed i 120 mila uomini) nelle FSA (l’esercito definito “regolare”, tra 140 e 250 mila effettivi), i cui quadri sono prosperati in tutti i sensi durante il regime precedente: “islamisti” convinti che sono sono stati addestrati all’Accademia Militare di Khartoum e provengono dalle regioni settentrionali del paese.
Al-Burhan aspira ad essere l’Al-Sisi del Sudan, ed ha un legame particolare con il regime egiziano (e non solo), che peraltro ritiene il Paese niente più più che una estensione del proprio territorio.
Burhan è stato l’artefice, nell’ottobre del 2020, della possibile “normalizzazione” dei rapporti diplomatici con Israele all’interno degli accordi di Abramo, patrocinati di Washington, che dovranno essere ratificati da un – per ora inesistente – parlamento sudanese.
Le RSF, invece, dopo la loro creazione nel 2013 dagli ex “janjaweed” (ovvero “demoni a cavallo”, provenienti da alcuni clan del Darfur), e il successivo consolidamento in funzione contro-insurrezionale – prima in Darfur e poi nel resto del Paese – sono divenute vere e proprie milizie mercenarie usate nel conflitto yemenita ed in quello libico.
Il Sudan aveva così giocato a tutto tondo un ruolo di primo piano nella coalizione a guida saudita che ha fatto la guerra ai ribelli “Houthi” in Yemen, una delle tante proxy war contro la mezza luna sciita a guida iraniana.
Dagalo “Hemmeti”, l’uomo più ricco del paese, è un abile predone che ha fatto dei rapporti clanici, delle ricchezze saccheggiate (l’oro sudanese) e del business della guerra la sua fonte di potere. Vicino ai sauditi e agli Emirati, cui ha fornito “la fanteria” per la guerra in Yemen, ma utilizzato anche dalla UE, che gli ha conferito sin dai tempi del regime di Al Bashir il ruolo gendarme dei flussi di immigrati dagli altri paesi più a sud.
Ora il conflitto armato potrebbe estendersi anche in Darfur e nel Kordofan, come nel Nilo Blu, visto che di fatto non era stato avviato nessun reale processo di pace con le formazioni che avevano guidato la lotta armata contro il precedente regime.
Un particolare di non poco conto, per il terzo paese africano per estensione, con una popolazione di 45 milioni di abitanti, è l’essere collocato in in una zona geostrategica di “cerniera” tra Sahel, Mar Rosso e Corno d’Africa, confinando con sette paesi di cui almeno tre soffrono di una grande instabilità: Libia, Sud Sudan, Repubblica Centro-africana.
Inoltre, il Sudan confina con il Ciad, il pivot dell’influenza francese nella regione – più volte attraversato dall’emergere di ribellioni di provenienza sudanese – che ha dispute territoriali con l’Etiopia nel triangolo di Al-Fashaga, di cui il Sudan (approfittando della guerra civile con il Tigray) ha occupato il 95% dei 250 km quadrati delle terre fertili comprese tra il fiume Setti e Atbara.
Non ultimo, il Sudan ha un contenzioso per le risorse idriche del Nilo, sia con l’Etiopia che con l’Egitto.
In sintesi, vi sono tutti gli elementi affinché la guerra in corso in Sudan si trasformi in un conflitto regionale.
Le forze vive della rivoluzione sudanese che avevano contribuito all’abbattimento dell’anziano dittatore hanno sempre denunciato, e si sono sempre mobilitate, contro lo status quo.
Tale situazione di stallo, in una fase di rottura degli equilibri geopolitici per l’escalation bellica in Ucraina dello scorso anno, per il consolidamento della divisione per sfere d’influenza in Libia e la normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Iran, non poteva che generare l’attuale scontro tra due contendenti che aspirano al controllo del paese – molto probabilmente anche “per conto terzi” – qualunque sia il prezzo che le popolazioni dovranno pagare.
Ma non è detto che questa guerra tra antagonisti speculari, protagonisti del golpe congiunto del 2021, non si risolva con la rovina di entrambi.
Gli occidentali – anche coloro che hanno cercato di alleviare le condizioni di esistenza della popolazione – e non solo, sono intanto costretti a fuggire dal Sudan.
Così come è successo in Afghanistan, l’imperialismo dell’Occidente appare incapace di avere un minimo di presa sugli avvenimenti di un Paese al collasso, dopo essere stato il tutor di un finto e fragile processo di transizione.
Gli altri attori sovranazionali regionali, e la stessa ONU, sembrano per ora relativamente impotenti.
Questa vistosa incapacità occidentale di esercitare una egemonia in questo caso si risolve per ora in una tragedia di cui la diplomazia euro-atlantica è la maggior responsabile, considerato che aveva preferito appoggiarsi ai due militari fortemente collusi con il passato regime genocida, piuttosto che alla volontà di riscatto delle popolazioni.
Era preferibile per l’Occidente fare questo, per non vedere diminuito il proprio peso diplomatico. I risultati di queste scelte sono ora sotto gli occhi di tutti.
Queste popolazioni, come abbiamo ostinatamente documentato sul nostro giornale, volevano dare al paese un futuro differente, proseguendo con la lotta quella traiettoria emancipatrice iniziata con la lotta vittoriosa contro il dominio anglo-egiziano nel 1956 e continuata con le altrettanto fortunate battaglie contro i regimi più o meno duraturi, emersi da colpi di Stato militare e abbattuti da rivoluzioni popolari per ben tre volte (1958-64, 1968-1985 ed infine 1989-2019).
Ci uniamo a tutti i membri della diaspora sudanese che chiedono l’immediata cessazione delle ostilità, consci che non saranno gli “apprendisti stregoni” euro-atlantici e le loro pedine a creare le condizioni per una pace duratura ed un reale processo di transizione nel paese.
*****
Per una migliore comprensione di ciò che sta avvenendo rimandiamo a: “Tempesta di Sabbia. Dossier Sudan” prodotto dalla Rete dei Comunisti.Fonte
Nessun commento:
Posta un commento