di Sandro Mezzadra
C’era una rivista che leggevo da ragazzino, una rivista di musica che si chiamava Rockerilla. La sede, tra l’altro, era a Cairo Montenotte, non lontano da Savona dove vivevo. È sulle pagine di quella rivista che ho incontrato per la prima volta il nome di Emilio Quadrelli. Doveva essere il 1980, e mi colpì moltissimo un suo articolo, intitolato se non ricordo male “Rock e proletariato”. Certo, a catturare la mia attenzione era stato anche il fatto che l’autore scrivesse da non so più quale carcere speciale della Repubblica. Ma avevo già cominciato a leggere i dispacci che provenivano da quei luoghi di segregazione e annientamento. E l’articolo di Emilio mi colpì per la diversa prosa, per la freschezza con cui trasformava una canzone come I can get no, satisfaction nella colonna sonora di un’insorgenza proletaria globale.
Avrei conosciuto Emilio non molti anni dopo, quando nel 1983 uscì per la prima volta dal carcere. E diventammo subito molto amici. Era cresciuto in Via Monterosa, in uno scorcio proletario di Marassi, a Genova, e aveva cominciato giovanissimo a vivere sul crinale tra legalità e illegalità. Soprattutto, giovanissimo era diventato un militante rivoluzionario. Legato a una figura fondamentale della Genova di quegli anni, Gianfranco Faina, si muoveva all’interno dell’autonomia guardando a Senza tregua più che ad altre componenti. Voleva agire, voleva far saltare pullman di lusso spagnoli mentre il regime di Franco metteva in atto le ultime esecuzioni, voleva colpire un’associazione anti-abortista legata alla curia, voleva organizzare un’evasione. Emilio condivideva, negli anni intorno al 1977, una tensione a quella che allora si definiva la “verticalizzazione” dello scontro, diffusa e certo non minoritaria. Questa tensione lo portò ad aderire alla prospettiva della lotta arma, a Prima Linea in particolare. E poi in carcere, per lunghi anni.
Sono solo pochi cenni, a una vicenda complessa che Emilio visse con determinazione senza mai prendere alcuna distanza dalle ragioni delle sue scelte. Al contrario, si può dire che ha mantenuto fino alla fine, fino agli ultimi giorni della sua vita, una estrema fedeltà a quelle scelte. Ma qui sta la peculiarità di Emilio: per lui fedeltà non ha mai significato né ripiegamento agiografico sul passato né dogmatismo. Al contrario, ha sempre cercato di riprendere dagli anni Settanta italiani esperienze e intuizioni teoriche da tradurre nel presente, con la consapevolezza degli scarti radicali e dell’esigenza di un’innovazione altrettanto radicale per rendere efficace quella traduzione.
Uscito dal carcere, Emilio si è impegnato in quest’opera di traduzione ponendosi in ascolto della realtà sociale (ovvero, per lui, della realtà di classe) e dialogando con le componenti che gli parevano di volta in volta più interessanti dei movimenti e delle organizzazioni comuniste. Lo ha fatto per quarant’anni, alcuni trascorsi come ricercatore alla Facoltà di Magistero dell’Università di Genova (La città e le ombre, scritto con Alessandro Dal Lago, è forse il frutto più significativo di quell’esperienza), altri a proseguire un lavoro quotidiano di inchiesta attraverso i suoi due osservatori privilegiati: la palestra, dove oltre a praticare ad alti livelli il powerlifting aveva cominciato ad allenare nella seconda metà degli anni Ottanta, e la comunità dove ha lavorato a lungo con ragazzi prevalentemente di estrazione migrante. I suoi moltissimi libri, anche quando sono intitolati a Lenin o all’autonomia operaia, portano i segni di questo lavoro quotidiano di osservazione, scambio e condivisione.
Negli ultimi mesi Emilio aveva combattuto con coraggio la malattia che lo stava consumando. Lavorava, dialogava, coltivava amicizie e complicità, faceva progetti per il futuro. Tra le altre cose ha preparato la nuova edizione di Andare ai resti. Banditi, rapinatori, guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta (DeriveApprodi), scrivendo un nuovo capitolo con Bruno Turci. È un libro straordinario, davvero unico sugli anni Settanta italiani, in cui lo sguardo retrospettivo mette a fuoco i caratteri di una rivolta che investiva e trasformava anche il carcere e i mondi extralegali. Una scrittura nervosa, a tratti quasi cinematografica restituisce lo spirito di un’epoca illuminandone potenzialità ancora inespresse.
Abbiamo appena salutato Emilio, al cimitero di Staglieno a Genova. È il 16 agosto, ma il “tempio laico” non riusciva a contenere la moltitudine di compagne e compagni che si sono stretti attorno a lui. Generazioni lontane, molti giovani e giovanissimi; mondi diversi, la palestra, la comunità, il carcere, le molte stagioni della sua militanza. Non avevano nulla di retorico i pugni chiusi e l’Internazionale, che abbiamo cantato insieme dopo aver ascoltato La mia banda suona il rock e Non, je ne regrette rien. Alla retorica, del resto, Emilio era profondamente estraneo, così come alla nostalgia: troppo forte era la sua ironia, corrosiva in particolare quando si rivolgeva a lui stesso. Ma Emilio era un compagno, era un comunista che dalla frequentazione di mondi diversi derivava sempre nuove motivazioni per rinnovare la sua militanza e la politica di classe. È questa pratica che lascia a noi che restiamo, mentre la sua dolcezza e la sua sensibilità le porterà sempre con sé chi ha avuto il privilegio di averlo vicino.
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