Oggi Pietro Ingrao compie cento anni, una buona occasione per un bilancio storiografico della sua azione politica e della corrente ideologica che ne è derivata. Le due cose, Ingrao ed ingraismo, infatti non si identificano perfettamente, come sempre accade fra la scuola ed il caposcuola, ma in questo caso c’è una particolare integrazione dei due termini.
Infatti, nell’ingraismo non sono confluite solo le elaborazioni dottrinarie, ma anche altri tratti minori, e, staremmo per dire, persino alcuni aspetti caratteriali dell’uomo che divennero una sorta di “cifra stilistica” della corrente.
Per questo, considereremo separatamente i due termini occupandoci in un altro pezzo dell’ingraismo che, in qualche modo, è continuato anche dopo il ritiro a vita privata del suo caposcuola. Attraverso Bertinotti giunge sino a noi essendo palese l’ascendenza ingraiana anche di Landini.
Eterno secondo ai littoriali fascisti della cultura, Pietro Ingrao appartiene a quella seconda generazione di dirigenti comunisti che ebbe la sua prima formazione nell’Italia fascista e che scoprì solo in un secondo momento il comunismo, attraverso il tunnel doloroso della guerra, della Resistenza, per incontrarsi con Togliatti prima ancora che con Gramsci.
Si tratta di un tema a lungo eluso, direi esorcizzato, dal Pci, come da tutti i partiti antifascisti, che avevano nel proprio seno, chi più chi meno, uomini passati per il medesimo cammino. E se ne comprende il motivo: il bisogno di presentare la nuova classe politica repubblicana in totale rottura con il passato fascista, reagendo con gelido disprezzo alla pubblicistica fascista (ad esempio “Italia fascista in piedi!” di Nino Tripodi) che sottintendeva, invece, conversioni opportunistiche all’antifascismo. Questo portava alla rimozione del tema ed all’enfatizzazione dell’antifascismo come negazione assoluta ed incontaminata del fascismo. In realtà le cose non stavano così (ne riparleremo) e il fascismo seminò concetti, che poi sono restati, finendo impastati con la successiva cultura politica dell’Italia repubblicana. La cosa non deve né stupire né scandalizzare (come invece accade ad una recente pubblicistica, cito per tutti il lavoro di Mirella Serri “I Redenti” che pure si basa su un’ottima ricerca d’archivio): la storia ha i suoi tornanti e le culture politiche sono corsi d’acqua che spesso si contaminano, magari attraverso passaggi carsici.
Ingrao, in particolare, fu influenzato dalla figura e dal pensiero di Giuseppe Bottai, il maggior intellettuale del regime ed, insieme, il gerarca più attivo nel promuovere la formazione delle giovani generazioni: dalle sue riviste presero le mosse alcuni dei nomi migliori dell’intellettualità post fascista ed antifascista, come Salvatore Quasimodo, Nicola Abbagnano, Enzo Paci, Carlo Muscetta, Mario Alicata, Vitaliano Brancati, Cesare Pavese, Vasco Pratolini, Vittorio Sereni, Giuseppe Ungaretti, Luigi Salvatorelli, Giorgio Spini, Enzo Biagi, Renato Guttuso, Sandro Penna, Eugenio Montale e decine di altri. E diversi di loro, come Giame Pintor, li ritroveremo fra i primi a combattere con la Resistenza. Quella di Bottai fu una sorta di serra degli eretici, della quale, eretico egli stesso, si compiacque.
E proprio questo tratto di dirigente politico-intellettuale con vocazione all’eterodossia fu, forse inconsapevolmente, quello che affascinò il giovane Ingrao. Ad avvicinare queste due figure inconsuete del Novecento italiano, non fu solo la propensione all’eresia e la profonda compenetrazione fra politica e cultura, ma anche il gusto del dubbio sistematico, la propensione all’astrattezza (per la verità, più spiccata nel secondo che nel primo), una certa sofisticatezza intellettuale, l’eterna insoddisfazione per la propria ricerca. Ma da questi stessi tratti discesero per entrambi anche il forte narcisismo, l’irresolutezza, la mancanza di tempismo politico, lo scarso coraggio.
E, per quanto possa apparire contraddittorio (ed in parte lo è davvero), entrambi sono stati uomini di fede: gli eretici spesso lo sono, quando cercano un’altra verità, ancora più definitiva di quella conosciuta. Bottai credette sino all’ultimo nell’uomo Mussolini, dal quale si distaccò tardi e non senza un profondissimo tormento interiore di cui leggiamo nelle pagine del suo Diario. Ingrao ha avuto sempre fede nel Partito, contro il quale lui non cercò mai di aver ragione. In nome di questa fede approvò - colpa non da poco, anche se condivisa con molti - il brutale intervento sovietico in Ungheria. In nome di essa piegò il capo dopo la sconfitta all’XI congresso. Ingrao restò fedele al partito anche quando (contro le sue convinzioni) esso cessò di essere comunista, per distaccarsene anni dopo e da solo. Era fedeltà all’ideale o feticismo organizzativo? Lasciamo decidere a chi ci legge.
Questo attaccamento insieme fideistico e tormentato, lo ha portato ad essere “l’uomo delle occasioni mancate”: nel 1966 tentò di dare battaglia all’XI congresso, ma senza avere il coraggio di presentare una sua mozione di minoranza e finendo sconfitto senza neppure aver combattuto davvero la sua battaglia. Tre anni dopo, assistette inerte all’espulsione del gruppo del Manifesto (tutti suoi storici seguaci) senza avere il coraggio di votare contro (come fecero Cesare Luporini e Lucio Lombardo Radice) e neppure di astenersi, ma tristemente votò a favore. Nel 1973 incassò la proposta di compromesso storico di Berlinguer, accennando solo una “lettura di sinistra” che non spostava di un millimetro i termini politici della questione (fu più esplicito nella critica il vecchio Longo). Nel 1976 incassò con altrettanta mancanza di coraggio anche la politica di Unità Nazionale, accontentandosi di andar a fare il Presidente della Camera. Non si dissociò neppure per un attimo dalla politica della fermezza sul caso Moro.
Ebbe un suo momento di fulgore dal novembre 1980 al 1984, quando Berlinguer ruppe con Amendola e cercò il suo appoggio, per reggere la svolta del dopo-terremoto e della “questione morale”, ma con l’unico risultato di inasprire l’isolamento identitario e settario del Pci, che ne avviava la decadenza.
L’ultima occasione di incidere nella storia di questo paese la ebbe con la trasformazione del Pci in Pds. Dopo essersi messo alla testa del cartello di opposizione che sfiorò il 30% al congresso di scioglimento, come sempre gli mancò il coraggio del passo successivo: guidare la scissione di Rifondazione. Preferì restare inutilmente nel Pds per uscirne, da solo e fra le lacrime, pochi anni dopo.
In queste ripetute battaglie perse senza esser date, ha inciso certamente la sua devozione al partito, assunto non come mezzo ma come fine in sé (quanto di meno marxista si possa immaginare ed anche assai poco leninista), ma anche altri aspetti sia del suo carattere (l’irresolutezza, la mancanza di tempismo) quanto del suo pensiero politico.
L’accusa costantemente rivoltagli nel Pci è stata quella di astrattezza, per cui all’acutezza dell’analisi non si accompagnava mai una proposta politica precisa ed intellegibile, ma solo una prospettiva assai vaga. Non era un’accusa gratuita: l’allievo di Togliatti eccelleva nell’analisi, sempre aperta a registrare i mutamenti in atto (a differenza di Amendola che, all’estrema concretezza della proposta, accompagnava analisi datatissime, come quella di Pietro Grifone sulla contrapposizione fra rendita e profitto in Italia), ma dimenticava la necessità di indicare con chiarezza gli sbocchi dell’azione. Perfidamente, la superstite ala secchiana del partito usava dire di Ingrao “Sentirlo sempre, Seguirlo Mai!”.
E questo tratto si riconosce facilmente tanto sulla questione della politica delle alleanze, quanto in quella del passaggio “dalla guerra di posizione a quella di movimento”.
Sul primo punto, Amendola indicava nel blocco delle forze laiche socialiste (la sua proposta di “Partito del Lavoro che unificasse Pci, Psiup, Psi e persino Psdi, il che era francamente troppo) e di esse con il Pri, Ingrao contrapponeva una incerta alleanza dal basso, che guardava ai gruppi sociali ed ai cattolici, piuttosto che ai socialisti. Sulla questione delle alleanze sociali non chiariva attraverso quali espressioni organizzative questo potesse avvenire, salvo che per l’unità sindacale, che, però, non riguardava parti importanti dei ceti medi come coltivatori diretti, professionisti, artigiani, studenti, intellettuali ecc. ma i soggetti sociali si esprimono talvolta per movimenti spontanei solo per periodi brevissimi, mentre in tempi ordinari si esprimono attraverso organizzazioni, senza le quali non esiste la loro soggettività politica.
Quanto all’apertura ai cattolici, non era affatto chiaro se dovesse tradursi nell’alleanza con una Dc guidata dalle sue correnti di sinistra, o nell’alleanza con un partito nato da una scissione delle sinistre democristiane, oppure con un partito cattolico nato ex novo da Cisl, Acli, Cristiani per il Socialismo e simili, o, infine, per semplice confluenza delle masse cattoliche nel Pci.
Di conseguenza, anche la manovra per passare dalla “guerra di posizione” (in cui Togliatti eccelleva) a quella di “movimento” (cioè all’offensiva) era altrettanto confusa. Amendola proponeva una modifica graduale attraverso un governo di sinistra di tipo laico-laburista, che, però, non mettesse in discussione la struttura capitalistica del paese - accontentandosi dell’indicazione togliattiana di seminare “elementi di socialismo”- e, tantomeno, metteva in discussione la collocazione internazionale del paese (Amendola precedette di 4 anni Berlinguer anche nell’accettazione della Nato). Ingrao, in teoria, era il più propenso a passare alla “guerra di movimento”, ma anche qui, a parte le indicazioni sul terreno sindacale, non si comprendeva bene attraverso quali passaggi occorresse andare all’attacco e su cosa. In politica estera, dopo il 1970, Ingrao non ha mai proposto l’uscita dalla Nato. Sul piano istituzionale, il fer de lance della sua proposta fu lo sviluppo delle autonomie locali, in particolare dell’ente regione”. Idea che, giudicata con l’ottica di oggi, non pare una gran trovata, avendo contribuito in modo non irrilevante all’ipertrofia del ceto politico.
Altra proposta caratterizzante della sua azione sul piano istituzionale, fu il tentativo di ridare centralità al Parlamento, attraverso un regime assembleare che scavalcasse la tradizionale divisione fra maggioranza ed opposizione. Il frutto fu la riforma dei regolamenti parlamentari del 1971 che proprio Ingrao, in veste di capogruppo alla Camera, trattò con il capogruppo della Dc, Andreotti. Ma il risultato finale non fu quello di un improbabile regime assembleare, quanto la premessa del consociativismo Dc-Pci. D’altra parte, un vero regime assembleare avrebbe presupposto una disciplina “lasca” dei gruppi parlamentari e la norma della libertà di voto di ciascun parlamentare. Ma, in presenza di un partito retto con la ferrea regola del centralismo democratico, come era il Pci, era una pretesa piuttosto irragionevole che gli altri non osservassero una disciplina altrettanto rigida. Al massimo, era possibile qualche margine di manovra in sede di commissione, ma anche qui senza ledere troppo il principio disciplinare.
Va detto che Ingrao, sin dall’XI congresso si espresse contro il mantenimento del centralismo democratico nel Pci, ma, al solito, senza mai precisare i caratteri della sua alternativa (Partito di correnti? Libertà di espressione e di voto individuale? Partito federativo per gruppi territoriali? Centralismo rettificato? Altro ancora?) e senza mai dare una battaglia precisa sul tema.
Altrettanto indeterminata fu sempre la sua critica al “socialismo reale” ed ai suoi regimi dell’est. Un’immeritata nomea di “maoista” illuse i giovanotti ingraiani della Fgci, che usavano gridare uno slogan insulso come “Mao-Ingrao-Occhetto-Lin biao (pensate che atropezo a la razon: Occhetto messo al pari con Lin Biao!!!). In realtà Ingrao non prese mai posizione a favore della Cina nel suo conflitto con l’Urss e, per la verità, le sue critiche al modello sovietico (come, peraltro, a quello cinese) non presero mai in discussione né il monopartitismo, nè il ruolo guida del Partito e nemmeno la violazione dei diritti di libertà. Al massimo, c’era qualche nebbioso accenno all’auspicabilità di un maggiore ruolo dei consigli operai.
Nessuna sensibilità sul tema del pluralismo, e qui è evidente l’influenza di Bottai e, più tardi, del roussoismo di Galvano della Volpe.
Da circa venti anni, Ingrao si è sostanzialmente ritirato a vita privata, salvo occasionali uscite a favore di qualche progetto di sinistra, peraltro, regolarmente fallito. Sembra difficile concludere che il bilancio della sua azione politica possa essere ritenuto positivo: non solo nessuna delle sue strategie ha mai raggiunto l’obiettivo sperato, nessuna forza politica che si sia ispirata, anche solo indirettamente, al suo pensiero ha avuto fortuna e la sua azione non ha neppure impedito la mutazione genetica del suo partito da comunista in conservatore-liberista ed antipopolare.
Quel che non ci impedisce di fargli i nostri auguri di una vita ancora lunga.
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