di Michele Giorgio – Il Manifesto
Cento
cacciabombardieri, 150mila soldati mobilitati, paracadutisti in azione,
navi da guerra e mezzi corazzati. Si commetterebbe un grave errore di
valutazione a giudicare questo eccezionale dispiegamento di forza
militare da parte dell’Arabia Saudita, battezzato «Tempesta decisiva»,
come finalizzato a sbaragliare poche migliaia di combattenti sciiti
Houthi che si muovono a bordo di pick up e sono armati di mitra e rpg,
per riportare al potere il presidente, Abed Rabbo Mansur Hadi.
L’impiego di tanta forza, l’avere messo insieme una
coalizione così ampia – oltre all’Arabia Saudita ne fanno parte Egitto,
Marocco, Sudan, Emirati arabi uniti, Qatar, Bahrein, Kuwait e Giordania
(il Pakistan ci sta pensando) – la scelta d'intervenire militarmente
subito, senza nemmeno attendere il vertice della Lega Araba in programma
domani e domenica a Sharm el Sheikh, non fa che indicare il vero
obiettivo di Riyadh.
Re Salman dell’Arabia Saudita ha dichiarato in Yemen una guerra
indiretta all’Iran e allo sciismo militante nella regione. E se il suo
predecessore Abdallah non aveva esitato ad intervenire in Bahrain con un
migliaio di soldati per spegnere nel sangue le proteste popolari contro
la locale monarchia sunnita, lui non esita a mobilitare le forze aeree,
terrestri e navali per ridare Sanaa all’alleato Hadi.
Mettendo insieme un fronte sunnita pronto all’intervento, Salman ha mandato un messaggio chiarissimo a Tehran: Riyadh
è pronta ad usare la forza per ridimensionare lo status di potenza
regionale riconosciuta che l’Iran otterrà non appena firmerà l’accordo
sul nucleare con i Paesi del 5+1, che si sta negoziando a
Losanna e giunto nella sua fase decisiva.
L’attacco militare in Yemen rappresenta anche un estremo
quando velleitario tentativo della monarchia saudita di creare tensione
tra Washington, che appoggia «Tempesta decisiva», e l’Iran che invece
condanna le operazioni saudite in corso in Yemen. Gli Usa, ieri
alla ripresa dei colloqui, hanno detto di vedere «un percorso per
procedere e arrivare all’accordo» mentre il ministro degli esteri
iraniano Mohammad Javad Zarif ha confermato la determinazione delle
parti di arrivare all’obiettivo entro la fine del mese sul quadro
politico, prima di un accordo dettagliato entro giugno.
Possibilità che non lasciano dormire Salmam e la pletora di principi intorno a lui. L’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo non avevano organizzato alcuna
«tempesta» quando i cacciabombardieri israeliani la scorsa estate
scaricavano le loro bombe su Gaza. E non hanno messo certo in piedi una
«armata» per combattere i jihadisti dello Stato Islamico che in pochi giorni hanno preso il controllo di larghe porzioni dell’Iraq.
Hanno solo donato qualche raid aereo alla Coalizione anti Isis voluta da
Washington.
L’attacco in Yemen spiega bene quali sono le vere priorità dei
sauditi in Medio Oriente. «Un tale impiego di forze armate e la
partecipazione di tanti Paesi alla coalizione (saudita) indica il
desiderio di rivincita di Riyadh nei confronti dell’Iran e la rabbia
verso gli alleati americani decisi a trovare un’intesa sul programma
nucleare iraniano», spiega al manifesto l’analista Mouin Rabbani.
«Non è possibile pensare che lo scopo saudita sia solo quello
di riavere a Sanaa il loro alleato Abed Rabbo Mansur Hadi – aggiunge
Rabbani – , re Salman sta lanciando un avvertimento preciso a Tehran:
non provare ad allargare il tuo raggio d’azione allo Yemen che era e
resta un Paese sotto il mio controllo, sotto la mia influenza e alla mia
frontiera meridionale».
L’analista sostiene che la mobilitazione militare saudita è una sorta
di «azione preventiva» poiché se è vero che i ribelli Houthi godono del
sostegno dell’Iran dall’altro lato non ci sono le prove di rifornimenti
di armi iraniane ai miliziani sciiti o dell’intenzione di Tehran di
provocare la caduta del presidente Hadi e il caos in Yemen.
Bab el Mandeb, «La Porta del lamento funebre». Pare che il nome di
questo stretto che congiunge il Mar Rosso, il Golfo di Aden e l’Oceano
Indiano, che separa lo Yemen da Gibuti di appena 32 km, derivi, secondo
una leggenda, dalle lacrime versate per la separazione dell’Africa
dall’Asia. Nella realpolitik dei nostri giorni, le lacrime non ci sono, i
lamenti invece sono tanti, quelli della stampa e dei commentatori arabi
schierati contro l’Iran, così simili a quelli che si leggono ed
ascoltano in Israele.
Mai come in questi giorni Arabia Saudita e Israele sono così
vicini. Tel Aviv nelle settimane passate ha fatto sapere che avrebbe
giudicato una minaccia concreta la caduta «in mani iraniane», ossia dei
ribelli Houthi, di Bab al Mandeb, un transito di eccezionale importanza
per la navigazione (anche quella militare) tra il Mar Rosso e l’Oceano
indiano. A maggior ragione se si considera che lo stretto di
Hormuz, la porta del Golfo, è già «in mani iraniane». È netto il
giudizio di Efraim Inbar, direttore del centro BeSa per gli studi
strategici dell’Università Bar Ilan di Tel Aviv. «Israele e Arabia Saudita condividono lo stesso punto di vista: l’Iran è una minaccia
molto grave per i due Paesi», ci dice «ed entrambi criticano la linea
dell’Amministrazione Obama, non capiscono perché voglia sdoganare e
rendere potenza nucleare l’Iran rimescolando pericolosamente gli
equilibri regionali».
Boaz Bismuth, editorialista del quotidiano Yisrael HaYom, vicino al
governo Netanyahu, non ha dubbi: lo Yemen «è un altro dei tanti
fallimenti dell’Amministrazione Obama».
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