di Michele Giorgio – Il Manifesto
Benyamin Netanyahu
va avanti a zig zag e tra il tira e molla sullo Stato di Palestina e le
dichiarazioni d’amore per gli Stati Uniti fatte l’altra sera, ha dato un altro schiaffone a Barack Obama che pure, anche se con un paio di giorni di ritardo, si era congratulato con lui per la vittoria elettorale. A
fine mese il premier israeliano, riconfermato a furor di popolo il 17
marzo, si prepara a ricevere con tutti gli onori colui che considera il
vero presidente degli Stati Uniti d’America: lo speaker della Camera
John Boehner, accompagnato da un nutrito gruppo di membri del Congresso.
Una visita che si svolgerà, “casualmente”, nelle stesse ore in cui
scadrà la deadline, 31 marzo, per il raggiungimento di un accordo sul
programma nucleare iraniano tra i Paesi membri del Consiglio di
sicurezza dell’Onu, più la Germania, e Tehran. L’intesa appare vicina –
il negoziato ieri è stato sospeso per qualche giorno per consentire ai
delegati iraniani di partecipare ai funerali della madre del presidente,
Hassan Rohani – e in caso di firma di un accordo, Boehner potrebbe,
proprio da Gerusalemme, confermare l’intenzione di non rispettarlo
annunciata dai Repubblicani nella lettera inviata un paio di settimane
fa all’Iran.
A dare una mano al piano messo a punto da Netanyahu e Boehner per
sabotare il compromesso con Tehran, sono giunte le dichiarazioni
dell’ex comandante militare ed ex capo della Cia David Petraeus, che nel 2007 e 2008 ha guidato le forze Usa in Iraq, secondo
il quale la principale minaccia per la stabilità dell’Iraq e della
regione non sarebbe lo Stato Islamico (!) ma le milizie sciite, a suo
dire, sostenute dall’Iran. Insomma, Tehran è il “male assoluto” da
combattere, proprio come va ripetendo Netanyahu. Nel frattempo
mentre la destra americana si scatena contro Obama, accusandolo di aver
commesso un «tragico errore» a non aver salutato con gioia la vittoria
elettorale di Netanyahu e ad aver messo il premier israeliano
nell’angolo per le dichiarazioni di rifiuto della soluzione dei 2 Stati
(Israele e Palestina), Tel Aviv fa sapere che non si attende alcun
cambiamento nei rapporti militari e strategici con Washington, quelli
che davvero contano. Amos Gilad, responsabile per gli affari
strategici del ministero della difesa, ha detto ieri che le relazioni in
quell’ambito rimarranno «intense», nonostante lo scontro tra Netanyahu e
Obama. Rispetto a una possibile revoca da parte degli Stati
Uniti dell’opposizione al riconoscimento dello Stato di Palestina al
Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Gilad si è mostrato scettico.
«Aspettiano di capire cosa (l’Amministrazione) intenda fare», ha
commentato lapidario. D’altronde oltre alle schermaglie verbali per
Netanyahu motivi concreti di preoccupazione ce ne sono pochi, visto che
lo stesso Obama, nella telefonata dell’altra sera, ha sottolineato
l’importanza che gli Usa attribuiscono alla cooperazione con Israele nei
settori militare, intelligence e sicurezza.
Netanyahu piuttosto non si fida dell’Europa. Un
rapporto redatto dai capi delle missioni a Gerusalemme dei Paesi
dell’Ue, molto critico verso la politica israeliana e pubblicato dal
quotidiano britannico Guardian, denuncia che nel 2014 la crisi nella
Città Santa e in particolare nella sua parte araba sotto occupazione, ha
raggiunto un livello che ricorda gli anni della Intifada e minaccia la
realizzazione dei 2 Stati. Adesso a Bruxelles, aggiunge il giornale, si starebbero discutendo misure punitive verso Israele.
Diciannove persone – quasi tutte palestinesi – sono state uccise,
sottolinea il rapporto. Gli arresti di palestinesi sono stati 1300; il
40%, viene precisato, erano minorenni. Questa conflittualità
vede le sue radici nell’espansione delle colonie ebraiche costruite
illegalmente da Israele nella Gerusalemme palestinese. Proprio da Har
Homa, una colonia ebraica molto importante, Netanyahu qualche giorno fa ha
promesso che rafforzerà la colonizzazione a Gerusalemme Est, costruendo
migliaia di nuovi alloggi per ebrei. La crescita sistematica
delle attività di colonizzazione è indicata dal rapporto come una delle
cause della fiammata di violenze e fa temere che la spartizione della
città fra israeliani e palestinesi – nel contesto di possibili accordi
di pace – sia sempre più difficile. Sono citate anche le tensioni sulla
Spianata della moschea di Al Aqsa. «Quasi ogni giorno – denuncia il
rapporto – coloni e attivisti nazional-religiosi vi entrano, scortati
dalla polizia israeliana». Secondo il Guardian la frustrazione dei
vertici europei è elevata. Fra le misure punitive ora all’esame
di Bruxelles vi sono: restrizioni negli spostamenti in Europa di coloni
israeliani notoriamente violenti; blocco dei prodotti provenienti dalle
colonie e la segnalazione ad uomini d’affari ed operatori turistici
europei dei rischi connessi ad attività legate alle colonie.
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