Gli ha fatto subito eco il re
saudita Salman, che ha annunciato che la campagna “proseguirà fino
all’ottenimento degli obiettivi di sicurezza”. Che
all’apparenza sono la restaurazione del governo ufficiale, del premier
Baha e del presidente Hadi, fuggiti dalla capitale Sana’a dopo la sua
caduta in mano sciita. Ma che in realtà sono ben altri, e più
sostanziosi: l’indebolimento dell’Iran, sostenitore Houthi, che
nell’ultimo anno ha incassato una serie di vittorie sul campo politico
(l’accordo sul nucleare) e militare (in Iraq) ergendosi a potere forte
della regione.
Ed ecco che il fuggitivo Hadi,
fortemente voluto nel 2012 da Riyadh per il post-Saleh, è stato accolto
con tutti gli onori dai leader della Lega Araba. Hadi incontrerà anche
il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, a cui aveva fatto appello
pochi giorni fa perché permettesse un intervento militare internazionale
in Yemen. Le Nazioni Unite paiono però preferire un ruolo defilato,
lasciando alle petromonarchie sunnite la gestione della questione, pur
accettando di buon grado che gli aerei sauditi si occupassero
dell’evacuazione dello staff Onu a Sana’a.
Molto meno defilato il ruolo
statunitense: Washington ha da subito sostenuto la campagna militare
saudita, sia per ridurre la prorompente influenza di Teheran (con cui
sta per firmare l’accordo sul programma nucleare e con cui
indirettamente collabora nel campo di battaglia iracheno contro l’Isis),
sia per mettere in sicurezza – ovvero, di nuovo, non nelle mani
iraniane – lo strategico stretto di Bab al-Mandeb, da cui passano i
cargo carichi di petrolio del Golfo diretti in Europa. L’attuale
strategia Usa in Medio Oriente viene descritta da più di un osservatore
come schizofrenica. Al di là delle tante bandiere sventolate dalla Casa
Bianca, ad emergere è l’elevato tasso di violenza cresciuto nell’ultimo
decennio, dall’invasione Usa dell’Iraq: responsabili non sono solo gli
alleati statunitensi (Riyadh, Il Cairo, Tel Aviv, Ankara) ma anche quei
gruppi estremisti che la Casa Bianca intende combattere ma che ha
aiutato a generare – da al Qaeda all’Isis – e che infiammano i già forti
settarismi etnici e religiosi interni.
“Il presidente [Obama] e re Salman
concordano sul nostro obiettivo comune, garantire stabilità duratura
allo Yemen attraverso una soluzione politica negoziata mediata dall’Onu e
che coinvolga tutti le parti”, ha detto la portavoce del Consiglio di
Sicurezza Nazionale Usa, Bernadette Meehan. Difficile intravedere la
possibilità di un negoziato dopo il via ad un’operazione militare
violenta, che ha ucciso civili e che tende all’alienazione politica
della minoranza sciita. Gli Houthi hanno lanciato la loro personale
offensiva in Yemen per ottenere dal governo l’apertura di spazi politici
ed economici, ad oggi nelle mani saudite, governative e tribali. Più
volte hanno teso la mano ad un negoziato mai arrivato e ora, dicono, non
intendono arretrare.
Nel terzo giorno di
bombardamenti, oggi, i jet sauditi hanno distrutto un arsenale di
missili in mano agli Houthi, nella capitale Sana’a. Altri raid hanno
centrato il sud del paese, da una settimana parzialmente
controllato dagli sciiti. Scontri tra fazioni rivali (accanto agli
Houthi combattono anche le forze fedeli all’ex presidente Saleh, che
ieri ha chiesto il cessate il fuoco e il negoziato Onu) sarebbero in
corso sul campo, a Taez, città meridionale presa dagli sciiti all’inizio
della settimana. Sono oltre 40 le vittime civili dell’operazione saudita.
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