di Mario Lombardo
La conferma della condanna a morte emessa questa settimana da un
tribunale egiziano contro l’ex presidente Mohamed Mursi è l’ennesima
sentenza politica registrata nel paese nord-africano a partire dalla
deposizione dello stesso leader dei Fratelli Musulmani nell’estate del
2013 per mano dei militari attualmente al potere.
La più recente
farsa mandata in scena dalla giustizia egiziana si è risolta in nuove
condanne di massa alla pena capitale che hanno interessato, oltre all’ex
presidente, altri 98 imputati, di cui 93 in absentia. Il
verdetto ribadisce in maniera sostanziale quanto era stato
preliminarmente deciso dalla stessa corte nel mese di maggio, quando i
condannati a morte erano stati 106.
Come previsto dalla legge in
Egitto, dopo la sentenza il tribunale aveva chiesto consulto al Gran
Mufti, la principale autorità religiosa del paese, il quale ha stabilito
che le pene erano appropriate. Il parere del Gran Mufti non è in ogni
caso vincolante per i giudici.
Assieme a Mursi sono stati
condannati a morte anche altri esponenti di spicco dei Fratelli
Musulmani, come la “guida suprema”, Mohamed Badie, il leader del partito
politico affiliato al gruppo, Mohamed el-Beltagy, l’ex candidato alle
elezioni presidenziali del 2012, Khairat el-Shater, e il predicatore
Safwat Hegazy.
Le condanne si riferiscono ai fatti legati
all’evasione dal carcere di Wadi Natroun nel febbraio del 2011 durante
la rivoluzione che portò alla cacciata del presidente Hosni Mubarak. Gli
imputati erano accusati di omicidio e tentato omicidio, di avere
favorito la fuga di altri detenuti, di avere dato fuoco alla prigione e
di essersi appropriati delle armi in essa custodite.
Secondo
l’assurdo impianto accusatorio, Mursi e gli altri leader islamisti
avrebbero orchestrato un complesso progetto cospirativo con l’aiuto di
militanti di Hezbollah - un’organizzazione sciita, a differenza dei
Fratelli Musulmani sunniti - e di Hamas. L’inconsistenza delle accuse
era evidente ad esempio dal fatto che alcuni presunti complici nella
fuga citati dall’accusa, secondo Hamas, al momento degli eventi erano
detenuti nelle carceri israeliane.
A Mursi e ad altri 35 imputati
sono state inoltre inflitte condanne all’ergastolo, ovvero a 25 anni,
come previsto dal codice penale egiziano, per un altro capo d’accusa,
cioè di avere complottato con “forze straniere” per destabilizzare il
paese. Lo stesso ex presidente nel mese di aprile era stato anche
condannato a 20 anni di carcere per incitazione alla violenza
nell’ambito degli scontri avvenuti nel dicembre del 2012 di fronte al
palazzo presidenziale di Ittihadiya.
Tutte le sentenze finora
emesse contro Mursi saranno soggette ad appello, mentre tuttora in
attesa di verdetto restano due ulteriori processi a carico dell’ex
presidente. Nel primo, Mursi è accusato di oltraggio nei confronti del
sistema giudiziario egiziano e nel secondo di avere passato documenti
riservati al Qatar, il cui regime era stato tra i principali sostenitori
del governo dei Fratelli Musulmani.
La natura dell’autorità
giudiziaria che ha condannato a morte Mohamed Mursi è apparsa chiara
dalle parole del giudice Shaaban el-Shami durante la lettura della
sentenza. Quest’ultimo ha denunciato le mire “diaboliche” dei Fratelli
Musulmani, elogiando invece il regime militare ora al potere.
Secondo
Shami, l’organizzazione islamista avrebbe una storia fatta di tentativi
di “conquista del potere con ogni mezzo” e si sarebbe adoperata per
deporre Mubarak e “legalizzare il versamento di sangue tra i figli della
nazione”. I militari, al contrario, nel deporre un presidente
democraticamente eletto avrebbero garantito la “sovranità del popolo”,
il quale chiedeva “la creazione di una società forte e coesa”. Simili
dichiarazioni giungono da un giudice che appoggia in pieno un regime
militare repressivo e violento, responsabile del colpo di stato del 2013
e di innumerevoli massacri, torture e arresti arbitrari ai danni dei
suoi oppositori.
Mentre la giustizia egiziana si occupa di
decimare i vertici dei Fratelli Musulmani, i militari e il governo
operano nella completa impunità per soffocare qualsiasi forma di
dissenso. Varie organizzazioni a difesa dei diritti umani hanno
denunciato i crimini del regime, a cominciare dalla strage di circa 800
manifestanti avvenuta il 14 agosto del 2013, per la quale non è stata
avviata nemmeno un’indagine a carico delle forze di sicurezza.
Nei
tribunali, processi manipolati in maniera macroscopica hanno portato a
condanne a morte di massa e vari attivisti parlano di centinaia se non
migliaia di persone sparite nel nulla dopo essere state rapite dai
servizi di sicurezza.
Parallelamente alla persecuzione dei
Fratelli Musulmani e degli altri esponenti dell’opposizione, Sisi e il
suo regime stanno garantendo il proscioglimento di politici e uomini
d’affari dell’era Mubarak, finiti agli arresti o sotto inchiesta dopo la
rivoluzione del 2011. Lo stesso ex presidente ha visto svanire molte
accuse nei suoi confronti, mentre il processo per l’uccisione di
centinaia di manifestanti al Cairo prima delle sue dimissioni dovrà
essere ripetuto.
La notizia della conferma della pena capitale
per Mursi è stata seguita dalle dichiarazioni di condanna, sia pure di
circostanza, dei governi occidentali. Qualche pressione il regime deve
averla percepita, così che nella giornata di mercoledì Al Sisi ha
annunciato un decreto di amnistia per 165 persone, quasi tutti studenti,
condannate principalmente per avere violato la legge ultra-repressiva
sulle manifestazioni di piazza.
L’amministrazione Obama si è
detta ad ogni modo “profondamente turbata per le sentenze motivate
politicamente” che “danneggiano la stabilità” dell’Egitto. I più recenti
abusi giudiziari, così come i precedenti crimini di cui si è macchiato
il regime di Al Sisi, non implicheranno tuttavia cambiamenti sostanziali
nella politica estera di Washington, da dove l’Egitto è considerato un
alleato strategico troppo importante per comprometterne i legami. Anzi,
recentemente il governo americano ha deciso lo sblocco degli aiuti
destinati ai militari egiziani, pari a 1,3 miliardi di dollari l’anno.
Per
motivi di convenienza politica, gli USA hanno talvolta assunto
atteggiamenti critici verso il Cairo, come era accaduto nel maggio
scorso, quando la Casa Bianca aveva sottoposto un rapporto al Congresso,
ammettendo che l’Egitto si “sta allontanando dalla democrazia, sta
comprimendo la libertà di espressione e sta arrestando migliaia di
dissidenti politici”, senza incriminare le forze di sicurezza
responsabili di “omicidi arbitrari o extra-giudiziari”.
L’amministrazione
Obama aveva però elogiato il regime per avere messo in atto una serie
di “riforme” volte a migliorare “il clima economico” in Egitto
attraverso provvedimenti come la riduzione dei sussidi ai beni di prima
necessità che ha colpito in maniera pesante le fasce più povere della
popolazione.
Nonostante
il carattere dittatoriale e violento del regime instaurato al Cairo
dopo la rimozione di Mursi, insomma, l’Occidente continua a essere ben
disposto a chiudere un occhio di fronte alle violazioni dei diritti
umani e civili.
Dopo gli sconvolgimenti del 2011 seguiti alla
fine di Mubarak, il regime di Sisi garantisce infatti, da un lato, la
difesa degli interessi strategici occidentali nella regione
mediorientale/nordafricana e, dall’altro, la stabilità interna richiesta
dagli investitori internazionali.
La misura della disposizione
dei governi in Occidente verso lo stesso dittatore con le mani sporche
di sangue è risultata così evidente dall’accoglienza ricevuta nel corso
di recenti tour europei che lo hanno portato in Francia, in Italia e,
solo un paio di settimane fa, in Germania.
Per quanto riguarda la
condanna di Mursi, appare al momento improbabile che possa essere
eseguita, se non altro per le pressioni internazionali e il pericolo di
trasformare l’ex presidente in un martire. Molto più probabile sembra
piuttosto l’ipotesi che Mursi possa essere tenuto in carcere e che il
regime utilizzi un’eventuale revoca della pena di morte come leva per
ottenere qualcosa in cambio dai governi occidentali.
I Fratelli
Musulmani, intanto, hanno lanciato un appello per scatenare una “rivolta
popolare” pacifica per la giornata di venerdì, anche se sono in molti a
credere che la mano pesante del regime nei loro confronti possa
innescare nel prossimo futuro una qualche forma di resistenza armata.
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