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18/06/2015

Il nuovo Egitto gronda vendette

di Mario Lombardo

La conferma della condanna a morte emessa questa settimana da un tribunale egiziano contro l’ex presidente Mohamed Mursi è l’ennesima sentenza politica registrata nel paese nord-africano a partire dalla deposizione dello stesso leader dei Fratelli Musulmani nell’estate del 2013 per mano dei militari attualmente al potere.

La più recente farsa mandata in scena dalla giustizia egiziana si è risolta in nuove condanne di massa alla pena capitale che hanno interessato, oltre all’ex presidente, altri 98 imputati, di cui 93 in absentia. Il verdetto ribadisce in maniera sostanziale quanto era stato preliminarmente deciso dalla stessa corte nel mese di maggio, quando i condannati a morte erano stati 106.

Come previsto dalla legge in Egitto, dopo la sentenza il tribunale aveva chiesto consulto al Gran Mufti, la principale autorità religiosa del paese, il quale ha stabilito che le pene erano appropriate. Il parere del Gran Mufti non è in ogni caso vincolante per i giudici.

Assieme a Mursi sono stati condannati a morte anche altri esponenti di spicco dei Fratelli Musulmani, come la “guida suprema”, Mohamed Badie, il leader del partito politico affiliato al gruppo, Mohamed el-Beltagy, l’ex candidato alle elezioni presidenziali del 2012, Khairat el-Shater, e il predicatore Safwat Hegazy.

Le condanne si riferiscono ai fatti legati all’evasione dal carcere di Wadi Natroun nel febbraio del 2011 durante la rivoluzione che portò alla cacciata del presidente Hosni Mubarak. Gli imputati erano accusati di omicidio e tentato omicidio, di avere favorito la fuga di altri detenuti, di avere dato fuoco alla prigione e di essersi appropriati delle armi in essa custodite.

Secondo l’assurdo impianto accusatorio, Mursi e gli altri leader islamisti avrebbero orchestrato un complesso progetto cospirativo con l’aiuto di militanti di Hezbollah - un’organizzazione sciita, a differenza dei Fratelli Musulmani sunniti - e di Hamas. L’inconsistenza delle accuse era evidente ad esempio dal fatto che alcuni presunti complici nella fuga citati dall’accusa, secondo Hamas, al momento degli eventi erano detenuti nelle carceri israeliane.

A Mursi e ad altri 35 imputati sono state inoltre inflitte condanne all’ergastolo, ovvero a 25 anni, come previsto dal codice penale egiziano, per un altro capo d’accusa, cioè di avere complottato con “forze straniere” per destabilizzare il paese. Lo stesso ex presidente nel mese di aprile era stato anche condannato a 20 anni di carcere per incitazione alla violenza nell’ambito degli scontri avvenuti nel dicembre del 2012 di fronte al palazzo presidenziale di Ittihadiya.

Tutte le sentenze finora emesse contro Mursi saranno soggette ad appello, mentre tuttora in attesa di verdetto restano due ulteriori processi a carico dell’ex presidente. Nel primo, Mursi è accusato di oltraggio nei confronti del sistema giudiziario egiziano e nel secondo di avere passato documenti riservati al Qatar, il cui regime era stato tra i principali sostenitori del governo dei Fratelli Musulmani.

La natura dell’autorità giudiziaria che ha condannato a morte Mohamed Mursi è apparsa chiara dalle parole del giudice Shaaban el-Shami durante la lettura della sentenza. Quest’ultimo ha denunciato le mire “diaboliche” dei Fratelli Musulmani, elogiando invece il regime militare ora al potere.

Secondo Shami, l’organizzazione islamista avrebbe una storia fatta di tentativi di “conquista del potere con ogni mezzo” e si sarebbe adoperata per deporre Mubarak e “legalizzare il versamento di sangue tra i figli della nazione”. I militari, al contrario, nel deporre un presidente democraticamente eletto avrebbero garantito la “sovranità del popolo”, il quale chiedeva “la creazione di una società forte e coesa”. Simili dichiarazioni giungono da un giudice che appoggia in pieno un regime militare repressivo e violento, responsabile del colpo di stato del 2013 e di innumerevoli massacri, torture e arresti arbitrari ai danni dei suoi oppositori.

Mentre la giustizia egiziana si occupa di decimare i vertici dei Fratelli Musulmani, i militari e il governo operano nella completa impunità per soffocare qualsiasi forma di dissenso. Varie organizzazioni a difesa dei diritti umani hanno denunciato i crimini del regime, a cominciare dalla strage di circa 800 manifestanti avvenuta il 14 agosto del 2013, per la quale non è stata avviata nemmeno un’indagine a carico delle forze di sicurezza.

Nei tribunali, processi manipolati in maniera macroscopica hanno portato a condanne a morte di massa e vari attivisti parlano di centinaia se non migliaia di persone sparite nel nulla dopo essere state rapite dai servizi di sicurezza.

Parallelamente alla persecuzione dei Fratelli Musulmani e degli altri esponenti dell’opposizione, Sisi e il suo regime stanno garantendo il proscioglimento di politici e uomini d’affari dell’era Mubarak, finiti agli arresti o sotto inchiesta dopo la rivoluzione del 2011. Lo stesso ex presidente ha visto svanire molte accuse nei suoi confronti, mentre il processo per l’uccisione di centinaia di manifestanti al Cairo prima delle sue dimissioni dovrà essere ripetuto.

La notizia della conferma della pena capitale per Mursi è stata seguita dalle dichiarazioni di condanna, sia pure di circostanza, dei governi occidentali. Qualche pressione il regime deve averla percepita, così che nella giornata di mercoledì Al Sisi ha annunciato un decreto di amnistia per 165 persone, quasi tutti studenti, condannate principalmente per avere violato la legge ultra-repressiva sulle manifestazioni di piazza.

L’amministrazione Obama si è detta ad ogni modo “profondamente turbata per le sentenze motivate politicamente” che “danneggiano la stabilità” dell’Egitto. I più recenti abusi giudiziari, così come i precedenti crimini di cui si è macchiato il regime di Al Sisi, non implicheranno tuttavia cambiamenti sostanziali nella politica estera di Washington, da dove l’Egitto è considerato un alleato strategico troppo importante per comprometterne i legami. Anzi, recentemente il governo americano ha deciso lo sblocco degli aiuti destinati ai militari egiziani, pari a 1,3 miliardi di dollari l’anno.

Per motivi di convenienza politica, gli USA hanno talvolta assunto atteggiamenti critici verso il Cairo, come era accaduto nel maggio scorso, quando la Casa Bianca aveva sottoposto un rapporto al Congresso, ammettendo che l’Egitto si “sta allontanando dalla democrazia, sta comprimendo la libertà di espressione e sta arrestando migliaia di dissidenti politici”, senza incriminare le forze di sicurezza responsabili di “omicidi arbitrari o extra-giudiziari”.

L’amministrazione Obama aveva però elogiato il regime per avere messo in atto una serie di “riforme” volte a migliorare “il clima economico” in Egitto attraverso provvedimenti come la riduzione dei sussidi ai beni di prima necessità che ha colpito in maniera pesante le fasce più povere della popolazione.

Nonostante il carattere dittatoriale e violento del regime instaurato al Cairo dopo la rimozione di Mursi, insomma, l’Occidente continua a essere ben disposto a chiudere un occhio di fronte alle violazioni dei diritti umani e civili.

Dopo gli sconvolgimenti del 2011 seguiti alla fine di Mubarak, il regime di Sisi garantisce infatti, da un lato, la difesa degli interessi strategici occidentali nella regione mediorientale/nordafricana e, dall’altro, la stabilità interna richiesta dagli investitori internazionali.

La misura della disposizione dei governi in Occidente verso lo stesso dittatore con le mani sporche di sangue è risultata così evidente dall’accoglienza ricevuta nel corso di recenti tour europei che lo hanno portato in Francia, in Italia e, solo un paio di settimane fa, in Germania.

Per quanto riguarda la condanna di Mursi, appare al momento improbabile che possa essere eseguita, se non altro per le pressioni internazionali e il pericolo di trasformare l’ex presidente in un martire. Molto più probabile sembra piuttosto l’ipotesi che Mursi possa essere tenuto in carcere e che il regime utilizzi un’eventuale revoca della pena di morte come leva per ottenere qualcosa in cambio dai governi occidentali.

I Fratelli Musulmani, intanto, hanno lanciato un appello per scatenare una “rivolta popolare” pacifica per la giornata di venerdì, anche se sono in molti a credere che la mano pesante del regime nei loro confronti possa innescare nel prossimo futuro una qualche forma di resistenza armata.

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