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21/06/2015

Le bufale sono un business

E anche un problema per la democrazia, scrive Francesco Costa su IL: leggerle e diffonderle fa guadagnare soldi a chi le scrive, e ormai parecchi lo fanno per mestiere.


Francesco Costa ha raccolto sull’ultimo numero di IL alcune notizie false uscite negli ultimi mesi sui giornali italiani, spiegando in che modo riescano ad alterare e indebolire la percezione delle cose che accadono attorno a noi. Costa ha spiegato in particolare il circolo vizioso per cui più sono «assurde, morbose o in grado di suscitare reazioni emotive» e più risultano attraenti per i giornali tradizionali: che da alcuni anni si trovano «con l’acqua alla gola per tentare di tenere il passo» di siti che diffondono notizie false unicamente per fare soldi, a loro volta alimentati da una richiesta sempre più crescente di informazione non tradizionale, causata proprio dalla scarsa credibilità dei giornali. Costa ha anche contattato il gestore di Catena Umana, il sito che ha diffuso la bufala che le due cooperanti italiane rapite in Siria avessero avuto rapporti sessuali coi propri rapitori, il quale ha parlato dei notevoli ricavi pubblicitari del proprio sito in relazione a quell’articolo.

Se avete letto i giornali negli ultimi mesi, sapete probabilmente che a febbraio l'Egitto ha invaso la Libia, che il governo Renzi vuole depenalizzare il maltrattamento degli animali e che la corruzione costa all'Italia ben sessanta miliardi di euro ogni anno. Peccato che niente di tutto questo sia vero.

Così come non è vero che i tifosi del Feyenoord abbiano stampato delle magliette con scritto “Vi accoltelliamo” rivolto ai romanisti, che nel video di un'ecografia pubblicato online si veda un feto battere le mani a tempo di musica, che secondo un'equazione matematica il 19 gennaio sia il giorno più triste dell'anno e che François Hollande abbia operato in Francia un gigantesco taglio ai costi della politica. Gli errori capitano a tutti, ma la diffusione di notizie imprecise o apertamente false sui media ormai è un fenomeno quotidiano: la più grande patologia del nostro tempo tra quelle di cui i giornali non parlano mai. Le ragioni di questo fenomeno si possono intuire con facilità, e sono discusse quotidianamente anche tra gli addetti ai lavori a mensa o durante i vari festival del giornalismo: la verifica delle fonti superficiale se non inesistente, la ricerca di visibilità e lettori sparandola grossa, l'interesse smodato del pubblico per notizie assurde, morbose o in grado di suscitare reazioni emotive, la necessità di fare i conti con sempre maggiori richieste e minori risorse in tempi di tagli e crisi del settore. Le smentite di queste bufale, quando e se ci sono, non trovano mai la stessa enfatica pubblicazione e virale diffusione della balla originaria, che intanto è tracimata e continua a vivere di vita propria: diventa un argomento di discussione nei talk show e davanti alla macchinetta del caffè, mentre sui giornali magari è stata a malapena derubricata a “giallo”. La prima conseguenza è la perdita di credibilità dei giornali e di chi li fa: secondo un recente studio Edelman – che non ha sorpreso nessuno – la maggioranza assoluta degli italiani dichiara di non fidarsi dei media (un paradosso interessante, visto che la pubblicazione di queste “notizie” è spesso giustificata con l'aria che tira e con la necessità di attrarre lettori anche a costo di usare qualche trucco del mestiere).

Ma c'è una seconda conseguenza ancora più inquietante e pericolosa: oggi, tra le persone – le persone normali, non i fuori di testa che credono ai complotti sull'11 settembre e ai rettiliani – esiste di fatto una realtà parallela. Se l'unica democrazia davvero compiuta è una democrazia informata, le notizie false indeboliscono la democrazia: costruiscono paradigmi culturali e creano percezioni che si riflettono nella vita di tutti i giorni, dalla scelta del partito da votare a quella dell'università da frequentare. Nella realtà parallela delle notizie false, per esempio, durante gli anni peggiori della crisi economica molti hanno descritto l'Islanda come il modello da seguire: smettere di pagare il debito e disobbedire alle crudeltà suggerite dalla troika. Mentre le redazioni dei talk show mandavano inviati in Islanda per raccontare questa storiella nell'intervallo tra una lite e l'altra, la realtà faceva il suo corso: l'Islanda pagava il suo debito, addirittura nazionalizzava tre grandi banche pur di evitarne il fallimento e riceveva con gratitudine un salvifico prestito del Fondo monetario internazionale; ma qualche partito cavalcava la falsa storia islandese criticando quelli che non trovavano praticabile quella strada inesistente. Tra le storie di questo genere, però, la più esemplare è quella sul calcolo del costo della corruzione in Italia. La cifra abnorme che circola da anni – sessanta miliardi di euro – viene ripetuta allo sfinimento durante comizi e talk show e a un certo punto è stata rilanciata persino dalla Commissione europea e dalla Corte dei Conti, ma è falsa. Circola dal 2004, viene da un calcolo grossolano operato sulla vaga stima della Banca mondiale per cui la corruzione incide per il 3-4 per cento del Pil mondiale e soltanto l'anno scorso, dopo averla riproposta innumerevoli volte, i giornali hanno cominciato a diffidarne.

Questo però non ha frenato la sua diffusione, perché i sessanta miliardi sono ormai un pezzo della realtà parallela: la presidente della Camera l'ha citata qualche mese fa in un'occasione formale, persino il presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, l'ha menzionata maldestramente nel suo nuovo libro. Nel frattempo, la percezione della corruzione nelle istituzioni secondo gli italiani sfiora il 90 per cento (!), dice l'Ocse; e secondo i dati di Transparency International gli italiani credono che in Italia ci sia più corruzione che a Cuba o in Ruanda. Conseguenze della realtà parallela: davanti a una situazione del genere, non c'è legge anticorruzione che possa essere considerata sufficiente. Nessuno vuole minimizzare l'impatto di un problema grave come la corruzione, ma se le buone intenzioni sono un criterio allora vale tutto: invece che sessanta miliardi facciamo cento, o mille. Per non parlare di tutto il ricchissimo filone delle bufale collegate all'avanzata dell'Isis in Medio Oriente: i carichi di arance infettati col virus dell'Hiv, il terrorista che parla italiano in un video, la guerra batteriologica imminente. «L'Isis si prepara ad attaccarci con il virus dell'ebola», ha scritto un grande giornale italiano in un articolo privo di fonti affidabili che è ancora disponibile online. Chi vuole fare soldi ha capito da tempo come sfruttare la realtà parallela delle bufale. Una popolare compagnia aerea low cost ha trovato da anni il modo di far parlare di sé senza spendere un euro: diffondere annunci assurdi e improbabili che vengono puntualmente ripresi e rilanciati da redazioni assetate di strano-ma-vero. Negli anni abbiamo letto dell'imminente arrivo di tariffe più alte per i bambini rumorosi e per i ciccioni, di prossime introduzioni di voli da dieci euro per gli Stati Uniti, di aerei con i posti in piedi o con i bagni a pagamento o con un solo pilota (ho la sensazione che quest'ultima non sarà più riproposta). È una specie di cinica complicità: i giornali racimolano un po' di clic con notizie false che attirano molto interesse, la compagnia aerea si fa pubblicità gratis.
Fonte

Per chi non lo avesse capito, la compagnia aerea è RyanAir...

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