Condividiamo le considerazioni critiche espresse da Giuseppe Onufrio sul Fatto del 5 settembre sulla riproposizione dell’energia nucleare, avanzata in termini strumentali e raffazzonati da vari esponenti in questa campagna elettorale.
Con l ’occasione ci sembra opportuno integrare le osservazioni di Onufrio con un aspetto del problema che invece vediamo trascurato non solo dai politici, ma sorprendentemente anche da ambientalisti e antinuclearisti.
Nei progetti di rilancio dell’energia nucleare, infatti, ci sono certo ancora i progetti delle grandi centrali di potenza attorno a 1.000 MWe che conosciamo da decenni, ma anche progetti che potremmo chiamare più “subdoli”, versioni decisamente nuove di reattori di taglie fra uno e dieci MWe – fra cento e mille volte minori – che potrebbero passare come una presenza non invadente, quasi “familiare” al pari degli ordinari elettrodomestici.
Si tratta dei microreattori, da non confondere con una terza tipologia di progetti, i cosiddetti Small Modular Reactors (SMR), che in realtà tanto small non sono, circa
300 MWe (si pensi che i primi tre reattori costruiti in Italia alla fine degli anni Cinquanta avevano taglie minori), ma dei microreattori, che sono un po’ la punta di diamante del rilancio del nucleare grazie alla loro versatilità di impiego. Tecnicamente si presentano come un derivato della filiera PWR (reattori ad acqua in pressione) di origine militare, mentre invece presentano ibridazioni che rimandano ai reattori a gas e alla chimica degli accumulatori di calore.
I più avanzati sono il modello Vinci della Westinghouse e i prototipi realizzati dall’Argonne National Laboratory nell’ambito dei programmi di ricerca del DoE (Department of Energy degli Stati Uniti).
Si tratta di reattori a fissione che usano combustibile arricchito fino al 20% (vale a dire quattro o cinque volte più elevato di quello dei reattori in esercizio); sono moderati a grafite e raffreddati a elio in circolazione naturale (senza bisogno di pompe) e hanno una potenza variabile appunto da 1 a 10 Mwe. Le dimensioni di questi modelli sono tali da stare in un normale container da trasporto, sia su strada che per ferrovia, arrivando a un peso massimo di 40 t per quelli più potenti.
Il progetto di questi microreattori (detti anche “nuclear battery”) è ispirato al concetto del plug-and-play, cioè si attacca la spina e si mette in funzione come un normale elettrodomestico.
Queste macchine sono completamente assemblate in fabbrica; hanno una vita utile tra i 30-40 anni; la manutenzione è a carico del fabbricante e hanno tempi di installazione dell’ordine dei mesi.
Negli Usa, per motivi di sicurezza nazionale, il Dipartimento della Difesa ha messo a punto un programma operativo per rendere più sicuro e affidabile il funzionamento di circa 500 basi dell’apparato militare statunitense attraverso l’uso di microreattori. In questo modo l’alimentazione di queste basi sarà resa indipendente dalla rete elettrica che potrebbe essere comunque soggetta a interruzioni e sabotaggi.
Il primo di questi microreattori è stato assegnato alla base aeronautica di Eielson in Alaska e dovrebbe essere operativo nel 2027.
Ancora più esteso si presenta il campo di applicazione civile di questi reattori, spaziando dalle miniere alle comunità isolate, dalla produzione di energia elettrica, a quella di calore per usi industriali e civili, a quella della potabilizzazione e desalinizzazione delle acque. Se si pensa poi al settore della mobilità elettrica, la diffusione dei microreattori può risultare ancora maggiore dato che si prestano a essere impiegati quali fonti di energia elettrica indipendente per alimentare le migliaia e migliaia di stazioni di ricarica per veicoli elettrici (auto e camion) che saranno costruite nelle grandi vie di comunicazione.
Qui si schiudono orizzonti impensabili per l ’energia nucleare se appena la si collocasse nello schema concettuale che molti “esperti” (ambientalisti e non) propugnano come modello di produzione elettrica distribuita sul territorio, simbolicamente rappresentata dalla smart grid, cioè una rete “intelligente” che proprio in virtù di una produzione elettrica non più concentrata in grandi impianti, è in grado di regolare i flussi di energia in modo bidirezionale (dai nodi periferici al centro di una rete elettrica e viceversa).
Concettualmente infatti non c’è nulla di più flessibile di un microreattore nucleare per far funzionare una smart grid.
In questo sta la l’insidiosa “novità” del nucleare che verrà e a cui dovremo far fronte: non più la macchina imponente e minacciosa dei vecchi grandi reattori (anche se non scompariranno del tutto), ma un apparato di dimensioni ridotte e dalle architetture leggere in modo da renderlo più “friendly”e farlo entrare nel novero dei congegni tecnologici con cui le persone si relazionano quotidianamente, facendone una presenza discreta e non invadente: in poche parole, un nucleare “domestico”.
Ma al di là di questi aspetti “accattivanti”, i problemi di fondo comuni a tutta la tecnologia nucleare non cambiano, anzi: a parte il tema – ancora tutto da investigare – dei possibili incidenti, ciò che si aggrava e si complica è il problema delle scorie.
Si aggrava perché l’estrema compattezza dei microreattori fa sì che tutto il reattore sia considerato come un unico grande rifiuto ad alta attività; si complica perché, ove mai questa tecnologia prendesse piede, ci troveremmo di fronte a una vera e propria proliferazione nucleare, soggetta ad attentati, sabotaggi e usi impropri che porta con sé, inevitabilmente, una militarizzazione del territorio senza precedenti.
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