È stato pubblicato ieri il report dell’Istat sulla situazione dei contratti collettivi e sull’andamento delle relative retribuzioni per l’ultimo trimestre del 2022. I dati fotografano una situazione tragica per le lavoratrici e i lavoratori italiani, e in generale confermano un quadro del mercato del lavoro dominato dal lavoro povero e dall’impossibilità per le retribuzioni di stare al passo con l’inflazione, che erode con forza il potere d’acquisto.
I Contratti Collettivi Nazionali scaduti sono ormai un’abitudine nel panorama italiano, e anche se l’attesa si è ridotta in media di quattro mesi (a dicembre 2022 bisogna attendere comunque 24,8 mesi per il rinnovo, ovvero più di due anni), sono ancora 26 quelli da rivedere e riapprovare, coinvolgendo circa 6,1 milioni di lavoratori, quasi il 50% del totale.
La media del 2022 dell’indice delle retribuzioni orarie ha visto, rispetto al 2021, un incremento dell’1,1%. Una cifra irrisoria, confermata dall’IPCA, (Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzati a livello UE), che ha calcolato ben al 7,6% il divario tra la dinamica dei prezzi e quella delle retribuzioni contrattuali.
Per avere un’idea dell’ordine di grandezza di cui stiamo parlando, si tratta del valore più elevato mai registrato – la prima registrazione è del 2001 – e il precedente più alto risale al 2012, anno di crisi, e ammontava solo all’1,8%.
La dinamica salariale è stata più debole nel settore dei servizi, ovvero quello che assorbe la maggior parte dell’occupazione. La grande soddisfazione con cui a ottobre scorso si era sottolineato che il tasso di occupazione aveva raggiunto il 60,5% (valore record dal 1977), con l’aumento trainato dai contratti a tempo indeterminato, nasconde però una strutturale condizione di “lavoro debole”, per cui l’Italia, secondo dati Eurostat, tra persone disponibili a lavorare ma che non cercano (sapendo di non poter trovare), part-time involontari e altro, è seconda solo alla Grecia. Inoltre c’è la diffusione capillare ed estesa del lavoro povero.
In sintesi, nell’unico paese OCSE in cui i salari reali sono diminuiti negli ultimi trent’anni, i contratti firmati per lo più da CGIL-CISL-UIL non garantiscono una vita dignitosa, e non riescono a stare al passo con l’inflazione.
Diventa evidente come sia attualissima la battaglia per un salario minimo ad almeno 10 euro e quella per il ritorno all’indicizzazione dei salari e delle pensioni al costo della vita. Invece, nell’arco di qualche mese, verrà tolto il reddito di cittadinanza a 400 mila famiglie e saranno allentati i vincoli sulla stipula di contratti a tempo determinato, con effetti che ricadranno con pesantezza sul potere contrattuale dei lavoratori. Si parte da questo per cominciare a mettere in campo una doverosa controtendenza.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento