Sul fatto che il periodo della cosiddetta globalizzazione sia finito sembra ormai che ci sia un consenso generale. Ma quando si passa dalla constatazione in termini generali, o teorici, agli aspetti concretamente materiali i problemi escono fuori a decine. E tutti di dimensioni “sistemiche”. Ossia, enormi...
In questo articolo vi presentiamo due contributi molto diversi, per contenuto e impostazione, che però convergono nel delineare una situazione economica – per l’Occidente neoliberista – che si va facendo insostenibile. Ma che è stata costruita e preparata proprio dalle scelte compiute dai capitali vincenti, negli ultimi 30 anni.
Ossia dalle multinazionali e dal capitale finanziario “occidentale” (o “euro-atlantico”, come preferiva dire uno dei suoi principali esponenti, mr. Mario Draghi).
Il sempre attento Guido Salerno Aletta, su TeleBorsa, rimette con i piedi per terra l’analisi da fare sulla “rottura” della globalizzazione. Niente geopolitica, che pure ha il suo ruolo, ma ridefinizione delle “catene del valore” a livello mondiale, a cavallo della pandemia da Covid – che le ha pesantemente interrotte e perturbate – e della improcrastinabile “transizione tecnologica” verso una produzione meno devastante in termini ambientali.
“Eravamo abituati così nella manifattura: i bassi costi delle materie prime e delle forniture intermedie consentivano di concentrare la maggior parte del valore aggiunto e quindi dei profitti nell’ultima fase di integrazione dei prodotti, quella che si interfaccia con il consumatore.
In pratica, il mercato è tenuto in mano da chi vende il prodotto finito: è lui che decide quale deve essere il prezzo finale, abbordabile per il consumatore, e quindi tiene in mano tutta la catena di produzione che arriva fino a lui.”
Un classico di come, marxianamente, viene sottratto plusvalore a chi lo ha prodotto (fornitori e materie prime) da coloro che controllano la merce finale, assemblata quasi sempre nel “giardino” euro-atlantico. Questa situazione è stata creata a forza di “delocalizzazioni” per sfruttare al massimo le differenze tra livelli salariali nelle maquilladoras di tutto il mondo rispetto al “centro” più sviluppato dal punto di vista capitalistico.
Ma ogni processo storico crea le condizioni del proprio superamento. Così quei subfornitori – Salerno Aletta li chiama “gli invisibili” – che consentono di mettere insieme un prodotto finito (l’automobile è l’esempio più chiaro) ora sono diventati indisponibili a continuare questo tipo di rapporto.
Non per “orgoglio”, ma per impossibilità oggettiva. I salari, dalle loro parti, sono saliti con l’industrializzazione e la messa al lavoro di masse sterminate di contadini. Se vi si aggiungono i costi del trasporto fino alle metropoli occidentali, i costi fissi cancellano i profitti.
In più tutte le vere innovazioni tecnologiche – e gli investimenti relativi – sono a loro carico, mentre qui si procede a colpi di “incentivi pubblici” per sostenere vendite altrimenti impossibili data la pluridecennale compressione dei salari euro-atlantici (se comprimi la domanda interna dovresti sperare di poter vendere all’estero; ma se tutti seguono lo stesso schema, alla fine manca “il mercato” dei compratori/consumatori).
Su questa condizione già molto critica si innesta poi l’indeterminatezza sulle soluzioni tecnologiche che dovranno diventare il nuovo standard mondiale. E qui, tornando all’esempio dell’automobile, regna il puro caos sperimentale.
Fare un’auto elettrica oppure ibrida, oppure ancora a idrogeno significa avviare catene di subfornitura molto differenti. In pratica l’unico elemento comune restano le ruote, la carrozzeria e gli interni… In assenza di certezza gli ordini (dal “centro”) non partono, le produzioni (in “periferia”) non si modificano oppure si fermano.
L’assemblaggio finale ne risente e oggi, per avere un’auto nuovo (se pure hai il reddito per comprarla) devi attendere anche più di un anno. Ed esplode perciò il mercato dell’usato, con prezzi alle stelle e prospettive di “ringiovanimento ecologico” del parco circolante che ovviamente collassano. Crisi industriale, finanziaria e ambientale restano intrecciate come e più di prima.
Qui arrivano a chiudere il cerchio le riflessioni di Giulio Tremonti, ex testa pensante dei socialisti italiani passato alle fila berlusconiane all’inizio della fase della cosiddetta “globalizzazione”.
Fuori da considerazioni politiche di breve momento (non è stato tra i “recuperati” nel governo Meloni, e qualcosa deve significare, vista la scarsità di “pensatori” in questo esecutivo), la sua ricostruzione dell’ultimo trentennio è efficace. Magari manchevole in molte parti, ma efficace.
Un “modello” si è imposto con grande rapidità e altrettanta violenza, spostando risorse colossali e know how da una parte all’altra del mondo e viceversa. Il controllo assoluto delle grandi organizzazioni private – multinazionali e società finanziarie di ogni tipo – che doveva assicurare la “tenuta” del sistema in un regime “basato sul mercato sicut deus: il mercato sopra, i popoli sotto, il mercato sopra, gli Stati sotto” ha prodotto invece il caos e la crisi.
Con ancora più nettezza: “La globalizzazione è finita e il tempio è crollato”.
Quell’ordine mondiale basato sull’egemonia unipolare statunitense – che garantiva la “supremazia delle forze di mercato” su tutti gli altri soggetti collettivi – si va sfarinando a velocità pazzesca.
Lasciando “un mondo molto simile a quello che c’era al principio del Novecento. Un mondo che non è più globale nel senso del dogma, dell’automatica progressione verso il bene garantita dal mercato, ma comunque internazionale come era allora (traffici commerciali, ma anche scontri e guerre).”
I prodromi della Prima guerra mondiale aiutano a intravedere la Terza...
Buona lettura.
In questo articolo vi presentiamo due contributi molto diversi, per contenuto e impostazione, che però convergono nel delineare una situazione economica – per l’Occidente neoliberista – che si va facendo insostenibile. Ma che è stata costruita e preparata proprio dalle scelte compiute dai capitali vincenti, negli ultimi 30 anni.
Ossia dalle multinazionali e dal capitale finanziario “occidentale” (o “euro-atlantico”, come preferiva dire uno dei suoi principali esponenti, mr. Mario Draghi).
Il sempre attento Guido Salerno Aletta, su TeleBorsa, rimette con i piedi per terra l’analisi da fare sulla “rottura” della globalizzazione. Niente geopolitica, che pure ha il suo ruolo, ma ridefinizione delle “catene del valore” a livello mondiale, a cavallo della pandemia da Covid – che le ha pesantemente interrotte e perturbate – e della improcrastinabile “transizione tecnologica” verso una produzione meno devastante in termini ambientali.
“Eravamo abituati così nella manifattura: i bassi costi delle materie prime e delle forniture intermedie consentivano di concentrare la maggior parte del valore aggiunto e quindi dei profitti nell’ultima fase di integrazione dei prodotti, quella che si interfaccia con il consumatore.
In pratica, il mercato è tenuto in mano da chi vende il prodotto finito: è lui che decide quale deve essere il prezzo finale, abbordabile per il consumatore, e quindi tiene in mano tutta la catena di produzione che arriva fino a lui.”
Un classico di come, marxianamente, viene sottratto plusvalore a chi lo ha prodotto (fornitori e materie prime) da coloro che controllano la merce finale, assemblata quasi sempre nel “giardino” euro-atlantico. Questa situazione è stata creata a forza di “delocalizzazioni” per sfruttare al massimo le differenze tra livelli salariali nelle maquilladoras di tutto il mondo rispetto al “centro” più sviluppato dal punto di vista capitalistico.
Ma ogni processo storico crea le condizioni del proprio superamento. Così quei subfornitori – Salerno Aletta li chiama “gli invisibili” – che consentono di mettere insieme un prodotto finito (l’automobile è l’esempio più chiaro) ora sono diventati indisponibili a continuare questo tipo di rapporto.
Non per “orgoglio”, ma per impossibilità oggettiva. I salari, dalle loro parti, sono saliti con l’industrializzazione e la messa al lavoro di masse sterminate di contadini. Se vi si aggiungono i costi del trasporto fino alle metropoli occidentali, i costi fissi cancellano i profitti.
In più tutte le vere innovazioni tecnologiche – e gli investimenti relativi – sono a loro carico, mentre qui si procede a colpi di “incentivi pubblici” per sostenere vendite altrimenti impossibili data la pluridecennale compressione dei salari euro-atlantici (se comprimi la domanda interna dovresti sperare di poter vendere all’estero; ma se tutti seguono lo stesso schema, alla fine manca “il mercato” dei compratori/consumatori).
Su questa condizione già molto critica si innesta poi l’indeterminatezza sulle soluzioni tecnologiche che dovranno diventare il nuovo standard mondiale. E qui, tornando all’esempio dell’automobile, regna il puro caos sperimentale.
Fare un’auto elettrica oppure ibrida, oppure ancora a idrogeno significa avviare catene di subfornitura molto differenti. In pratica l’unico elemento comune restano le ruote, la carrozzeria e gli interni… In assenza di certezza gli ordini (dal “centro”) non partono, le produzioni (in “periferia”) non si modificano oppure si fermano.
L’assemblaggio finale ne risente e oggi, per avere un’auto nuovo (se pure hai il reddito per comprarla) devi attendere anche più di un anno. Ed esplode perciò il mercato dell’usato, con prezzi alle stelle e prospettive di “ringiovanimento ecologico” del parco circolante che ovviamente collassano. Crisi industriale, finanziaria e ambientale restano intrecciate come e più di prima.
Qui arrivano a chiudere il cerchio le riflessioni di Giulio Tremonti, ex testa pensante dei socialisti italiani passato alle fila berlusconiane all’inizio della fase della cosiddetta “globalizzazione”.
Fuori da considerazioni politiche di breve momento (non è stato tra i “recuperati” nel governo Meloni, e qualcosa deve significare, vista la scarsità di “pensatori” in questo esecutivo), la sua ricostruzione dell’ultimo trentennio è efficace. Magari manchevole in molte parti, ma efficace.
Un “modello” si è imposto con grande rapidità e altrettanta violenza, spostando risorse colossali e know how da una parte all’altra del mondo e viceversa. Il controllo assoluto delle grandi organizzazioni private – multinazionali e società finanziarie di ogni tipo – che doveva assicurare la “tenuta” del sistema in un regime “basato sul mercato sicut deus: il mercato sopra, i popoli sotto, il mercato sopra, gli Stati sotto” ha prodotto invece il caos e la crisi.
Con ancora più nettezza: “La globalizzazione è finita e il tempio è crollato”.
Quell’ordine mondiale basato sull’egemonia unipolare statunitense – che garantiva la “supremazia delle forze di mercato” su tutti gli altri soggetti collettivi – si va sfarinando a velocità pazzesca.
Lasciando “un mondo molto simile a quello che c’era al principio del Novecento. Un mondo che non è più globale nel senso del dogma, dell’automatica progressione verso il bene garantita dal mercato, ma comunque internazionale come era allora (traffici commerciali, ma anche scontri e guerre).”
I prodromi della Prima guerra mondiale aiutano a intravedere la Terza...
Buona lettura.
Guido Salerno Aletta – Agenzia Teleborsa
Eravamo abituati così nella manifattura: i bassi costi delle materie prime e delle forniture intermedie consentivano di concentrare la maggior parte del valore aggiunto e quindi dei profitti nell’ultima fase di integrazione dei prodotti, quella che si interfaccia con il consumatore.
In pratica, il mercato è tenuto in mano da chi vende il prodotto finito: è lui che decide quale deve essere il prezzo finale, abbordabile per il consumatore, e quindi tiene in mano tutta la catena di produzione che arriva fino a lui.
L’epidemia di Covid ha determinato una interruzione davvero lunga e pesante delle attività produttive ed ha comportato una rottura dei precedenti equilibri nei flussi delle forniture, anche in ragione della diversa collocazione geografica dei singoli produttori. Coloro che si occupano di fornire le materie prime, i semilavorati e la componentistica, per non parlare di coloro che si occupano della logistica industriale sono stati violentemente colpiti.
La componentistica, in campo elettrico ed informatico, è poi alle prese con le richieste più disparate, sia per le forniture per le auto elettriche sia per quanto riguarda la transizione verso le energie rinnovabili, dalle apparecchiature che servono per i pannelli fotovoltaici che altri sistemi di produzione di energia rinnovabile.
Ma, in questo caso, tanto in Europa quanto negli Usa, i giganteschi incentivi pubblici sono erogati solo a favore di chi è alla fine della catena di produzione, che incarica i produttori a valle di aggiornare le forniture per adeguarle alle nuove esigenze.
In pratica, non solo si chiede agli Invisibili di effettuare nuovi investimenti, ma li si lascia in mezzo ai guai per la chiusura di intere catene di montaggio che servivano per la componentistica che ora va dismessa: nel campo automobilistico è una vera catastrofe.
Tra l’altro, non c’è alcuna stabilità negli ordinativi, né per quantità né per tipologie, visto che è tutto ancora sperimentale.
In pratica, chi sta alla fine del sistema di produzione industriale cerca di spostare il peso ed il rischio delle innovazioni tecnologiche a monte: di fronte alla resistenza degli Invisibili, che chiedono prezzi elevati per i loro prodotti, troppo elevati per il consumatore e assai poco convenienti per il profitto del produttore finale, il sistema si blocca. Gli ordinativi rimangono inevasi.
A ritroso, queste difficoltà riguardano il settore delle materie prime, tanto indispensabili quanto assai poco remunerate: non si tratta solo dei prodotti energetici, ma di tutti i minerali che servono per produrre gli apparati elettronici, le batterie, i sistemi di controllo e gestione della energia elettrica da fonte rinnovabile.
Secondo una ricerca della Destatis, l’organismo ufficiale di Statistica della Germania, la mancanza di componenti colpisce l’industria manifatturiera in media per il 48,8% dei casi. Ma questa percentuale arriva al 79,4% nel settore dell'informatica, al 75,5% per i macchinari ed equipaggiamenti, al 74,4% nel caso dell’industria automobilistica, al 62,7% nel settore degli equipaggiamenti elettrici.
Che la causa di queste difficoltà dipenda dalle richieste particolarmente sfidanti ed innovative della committenza tedesca, alle prese con la transizione energetica e climatica, è provato dal fatto che l’indice di scarsità crolla nelle industrie tradizionali: appena il 25% nell’industria chimica; soltanto il 19,4% nel caso del tessile, appena il 16% per l’industria del legno, il 15% nel settore dell’arredamento, il 13% per il settore delle cartiere, per raggiungere il minimo del 7,4% nella manifattura dei minerali di base.
Destatis fa presente che dalla Cina arriva il 10,1% di tutte le importazioni tedesche di prodotti intermedi, ma la gran parte delle componenti elettroniche come semiconduttori e circuiti integrati.
Sembra quasi che i produttori cinesi non ci stiano più a fare da materasso per l’industria occidentale, a lasciare che i partner tedeschi si prendano la gran parte del valore aggiunto manifatturiero, a pagare con la loro componentistica il maggior costo della nostra transizione energetica.
Professor Giulio Tremonti, cosa differenza la globalizzazione dagli altri periodi storici?
“Normalmente i fenomeni a rilevanza storica sono iscritti in un tempo mediamente lungo. La lunga durata è, infatti, l’unità di misura della Storia. Nel caso della globalizzazione c’è stata, invece, ed è straordinaria, una asimmetria iscritta in un tempo storicamente breve: un fenomeno ad altissima intensità, con una intensissima mutatio rerum, iscritta in un tempo storicamente breve. Molto breve: dal 1989 al 2016.”
Nel 1989 cade il muro di Berlino. Quali sono i passaggi successivi?
“Nel 1994 c’è il Wto a Marrakech, in Marocco. Un accordo non commerciale, un accordo politico. Qui nasce l’idea di un mondo pacificamente sviluppato su un’unica geografia mercantile piana. In questo momento l’Asia muove i primi passi nel mercato globale (nel Wto entrerà formalmente nel 2001). Dal 2008 si registra la prima crisi che non è solo finanziaria ma è la crisi dell’idea di spostare di colpo la fabbrica in Asia con un effetto povertà per le classi lavoratrici dell’Occidente. Effetto che si tenta di compensare creando Finanza dal nulla con i subprime che sono appunto crollati con la crisi del 2008.”
Nel 2016 con le elezioni americane si afferma l’opposto della globalizzazione.
“Si blocca lo scivolo degli Stati Uniti verso l’Asia. È l’anno del Make America great again, dell’America first. Nell’ottobre del 2016 il presidente Barack Obama, commentando la vittoria di Donald Trump, dice non è la fine del mondo, è la fine di un mondo. E, in effetti, così coglie l’essenza politica e filosofica della globalizzazione che era strutturata come la fabbrica in un mondo nuovo per l’uomo nuovo. Nel suo discorso di insediamento Obama aveva infatti detto: ‘Non abbiamo un passato, abbiamo solo un futuro’. Per capire l’intensità di questo cambiamento bisogna valutare l’essenza utopica della globalizzazione.”
Non a caso utopia significa proprio assenza di luogo.
“L’utopia è la quintessenza della globalizzazione. Il metro per valutare quello che è successo in questo periodo è un metro politico: devi capire cosa ci si illudeva che fosse il mondo nuovo, una rottura sulla linea della storia che si è sviluppata per tre decenni. Se guardi il mondo come è stato ipotizzato e costruito in questi trent’anni era assolutamente diverso dal passato, un mondo basato sul mercato sicut deus: il mercato sopra, i popoli sotto, il mercato sopra, gli Stati sotto. In ogni caso la matrice della globalizzazione non era economica ma politica: l’economico totalitarismo del mercato. E questo è stato, nella realtà e nei sogni di tanti, questo periodo.”
Nel luglio del 1989 ha scritto un articolo sul Corriere della Sera per denunciare che si stava spezzando la catena stato-territorio-ricchezza. Che cosa stava accadendo?
“La ricchezza si stava liberando dai vincoli territoriali, la sua parte più strategica stava entrando nella repubblica internazionale del denaro.”
Quindi già allora lei aveva intuito il ribaltamento della struttura politica. Tutto il resto è poi venuto a seguire. Nel 1995 è quindi uscito in libreria con Il fantasma della povertà, il libro in cui prevedeva l’impoverimento delle classi lavoratrici dell’Occidente.
“Nei WikiLeaks del 2008, mandati da Roma a Washington, si legge: ‘Tremonti ha sempre avuto profondi dubbi sui benefici della globalizzazione e ha una filosofia politica non ortodossa’. Quella ortodossa si sarebbe poi presto schiantata da sé. La globalizzazione è finita e il tempio è crollato. Lo vedi da tanti segni. Le piaghe sono finora state sette: il disastro ambientale, lo svuotamento della democrazia sversata nella repubblica internazionale del denaro, la società in decomposizione, la spinta verso il transumano, l’apparizione dei giganti della rete, la pandemia, la guerra alle porte dell’Europa e la crisi nell’approvvigionamento di risorse, dal gas al grano.”
Che mondo è quello in cui viviamo?
“È un mondo molto simile a quello che c’era al principio del Novecento. Un mondo che non è più globale nel senso del dogma, dell’automatica progressione verso il bene garantita dal mercato, ma comunque internazionale come era allora (traffici commerciali, ma anche scontri e guerre). C’era stata la Belle Époque, ma c’era stata pure Sarajevo. E questo è il mondo in cui siamo noi.”
Che effetto ha tutto questo sulla vita delle persone?
“Sull’uomo, che tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento guardava per la prima volta una fotografia, l’impatto era uguale di uno che oggi guarda il tablet. In ogni caso, a proposito di media, dato che Google non perdona, sui media puoi leggere quante cose state dette e non previste dalle nostre cassi dirigenti. Ragione per cui bisogna diffidare, perché sono ancora quelle di una volta.”
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento