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11/02/2023

Masterchef, la scuola e l’ansia di fallire

Sono un docente in una scuola superiore, e negli ultimi mesi mi è capitato di guardare alcune puntate dell’ultima stagione di Masterchef.

Al di là di un giudizio sul programma – come si suol dire, de gustibus – le puntate mi hanno sempre di più coinvolto in una riflessione che intrecciava quello che vedevo sullo schermo con la quotidianità del mio lavoro.

In breve, mi sono reso conto che Masterchef rappresenta tutto quello che una scuola non dovrebbe essere e, tragicamente, tutto quello che la nostra scuola sta diventando.

Iniziamo dalla parte più semplice dell’analogia: Masterchef è una scuola di cucina, e, allo stesso tempo, Masterchef è una gara. Già questo fatto, all’apparenza banale, dovrebbe far drizzare le orecchie ad una qualunque sensibilità sociale e/o pedagogica.

L’accostamento fra apprendimento e competizione è sempre delicato. Intendiamoci, non che in un processo educativo non si possano sfruttare momenti competitivi, ma questo va fatto sempre con attenzione e delicatezza, come ogni docente che abbia presente il proprio ruolo ha modo di sperimentare quotidianamente.

In Masterchef tutto questo non esiste: impara, anzi può continuare ad imparare, solo chi supera le prove infernali proposte dai giudici, rimanendo sempre il migliore di un enorme schiera di aspiranti chef: è il celebre uno su mille ce la fa, traslato dalla vita ai fornelli.

In un certo senso è ovvio che sia così, si tratta di una gara: ma il problema è che una dura competizione nella quale si può imparare solo se si è i migliori e alla fine vincendo si ottiene un lavoro somiglia troppo tragicamente alla vita quotidiana di migliaia di giovani per permetterci di prenderla alla leggera.

Più che un programma di evasione, siamo alla giustificazione e alla romanticizzazione di un contesto reale e inaccettabile.

Fin qui tutto abbastanza triste, ma in fondo banale. Il dato ancora più interessante per chi voglia pensare alla scuola e al mercato del lavoro ad essa connesso si ha quando si pensa a come si costruisce la competizione.

Nel procedere delle varie edizioni la severità e le critiche sono andate a scomparire o comunque ad attenuarsi nello show, così come in molti casi le si vorrebbe fuori dalle scuole.

Nell’insegnamento non ci devono essere brutti voti, insufficienze e bocciature, e allo stesso modo in Masterchef si sono eliminati i giudici che tirano via i piatti del malcapitato di turno. Chiariamoci, non è che si stia sostenendo che vi sia un pregio a trattare male gli studenti. O che esista un valore formativo dell’umiliazione.

Ma ciò che è interessante è che la scomparsa della critica, dell’insufficienza, non porta ad attenuare la competizione, ma ad aumentarla, proprio come accade a scuola, dove l’inflazione delle valutazioni si accompagna ad un aumento dell’ansia e dello stress collegato ad esse [1].

Masterchef ci fornisce la chiave per la logica di questo processo: quando scompare la critica scompare il riferimento all’oggettività e alla concretezza di un lavoro, scompare la qualità, il valore d’uso.

Così, come chi ha seguito le ultime stagioni avrà notato, oltre ad un attenuarsi delle critiche dentro Masterchef, si parla sempre meno di cucina e sempre più di emozioni, sempre meno di tecnica dei piatti e sempre più delle storie degli aspiranti chef.

Cannavacciuolo, Barbieri e Locatelli sono dei novelli psicologi, che invece di dirci come fare le tagliatelle utilizzano la metafora della cucina per spiegare al povero concorrente la vita in generale, o la sua vita in particolare, ormai diventata il vero oggetto della gara.

Che queste persone non abbiano nessuna capacità o sensibilità specifica per fare tutto questo non importa, perché è il concorrente che è lì per dimostrare di valere qualcosa, e la competizione fà si che non sia importante solamente che sappia cucinare, ma deve anche comunicare, dimostrare di volere così tanto il ruolo di Masterchef da raccontare i suoi problemi a favore di camera.

Tutto questo forse servirà a rendere la serie appetibile ad una parte di pubblico – ritorniamo ancora al de gustibus delle prime righe – ma in realtà non mostra nient’altro che l’attuale stato di competizione esistente sul mercato del lavoro e quindi anche nella scuola e nell’università.

Non basta sapere fare un lavoro concreto, non basta una capacità tecnica e specifica, bisogna volerlo, cioè bisogna pensare che l’occasione formativa e lavorativa di turno sia ciò che conta di più, per la quale si deve essere disposti a sacrificarsi, a mettersi in gioco, in pratica a farsi sfruttare senza remore.

Il risultato è che sullo schermo si vede tutto quello che non si dovrebbe fare quando si insegna: non si parla del tuo piatto, si parla di te, così che se fallisci, se non sei il migliore, non parliamo di un fallimento nel mondo dell’oggettività, legato ad una prestazione e ad un oggetto specifico – la carbonara dell’ultimo pressure test o il compito di matematica – ma della tua interiorità, di un livello legato al mondo dei valori e della volontà.

Se il tuo piatto è cattivo è perché non volevi abbastanza essere il nuovo masterchef, è la tua storia che fallisce, sei tu ad essere cattivo.

Le conseguenze di questo modo di intendere la formazione sono sotto gli occhi di tutti, nelle ansie di nuove generazioni che si trovano, a scuola all’università o sul lavoro, a combattere una gara a ostacoli solo per vivere una vita dignitosa.

Nel frattempo, in un mondo alla rovescia, gli Chef stellati non cucinano ma fanno gli psicologi in tv, i salari nel mondo della ristorazione sono sulla soglia della povertà e una cena costa come una giornata di lavoro.

Meglio cambiare canale, ma non in tv.

Note

[1] Questi dati, aumento medio dei voti e aumento dell’ansia, sono ormai noti a chiunque conosce la scuola da vicino. Si confrontino questo articolo sulle valutazioni e l’allarme dell’ospedale Bambin Gesù di Roma per riscontri oggettivi, che in ogni caso sono molto più ampi e approfonditi.

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