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02/02/2023

Stalingrado e la divulgazione liberale della storia


Si avvicina l’80° anniversario della storica vittoria dell’Unione Sovietica a Stalingrado. Ci sembra corretto parlare di vittoria dell’Unione Sovietica, e non soltanto dell’Esercito Rosso, strettamente inteso, sulla Wehrmacht: sin dall’inizio dell’invasione dei tre Gruppi d’armate nazisti, l’intero popolo sovietico, e in particolare quello russo, rispose alla mobilitazione.

Dalle decine di migliaia di russi, ucraini, bielorussi, inquadrati nelle grandi formazioni partigiane operanti nelle regioni occupate dai nazisti; ai milioni di tecnici e operai che, dalle fabbriche evacuate a est sfornavano armamenti, equipaggiamenti, rifornimenti alimentari per il fronte; dai kolkhozniki che dalle Repubbliche centro-asiatiche fornivano il necessario per il funzionamento di quelle fabbriche, mentre accoglievano le centinaia di migliaia di vecchi e bambini sfollati; alla popolazione della Repubblica popolare mongola che, pur non facendo parte dell’URSS e memore dell’aiuto prestato dall’Esercito Rosso contro l’aggressione giapponese nel 1938 e 1939, fornì al fronte molto più di quanto non facessero gli USA con il Lend-Lease: centinaia di migliaia di cavalli, lana, vestiario, cibo e altro materiale.

Molto è già stato ricordato e molto ancora verrà detto, in questi giorni, a proposito della storica vittoria: sia dal punto di vista della ricostruzione storica, che da quello del suo significato politico, con inevitabili rimandi alla situazione attuale.

Qui vorremmo semplicemente soffermarci su alcuni punti che ciclicamente tornano a galla, quando si parla non solo della vittoria sovietica a Stalingrado, ma anche, in generale, dell’intera condotta sovietica della guerra, delle scelte strategiche e tattiche del Comando supremo, del prezzo pagato dai sovietici per una vittoria ottenuta – questo il mantra spicciolo più diffuso – «nonostante Stalin», nonostante «le stragi commesse da Stalin tra i comandanti dell’Armata Rossa», a dispetto di «un regime terribile che molti soldati odiavano», e via dicendo.

Queste considerazioni, divenute da tempo un assioma anche in certa sinistra, sono state così capillarmente instillate nel senso comune, che sembrano non aver bisogno di alcuna prova documentaria a sostegno: è così; è sufficiente ricordarlo; con un regime “totalitario” guidato da un “tiranno” non poteva che essere così; punto.

Queste e altre sentenze ce le hanno reiterate centinaia di volte, gli autori più diversi: devono essere per forza vere! E hanno ricevuto tanta più conferma – ecco un’altra formula mistica – con “l’apertura degli archivi sovietici”, come se ancora non fosse chiaro quali e quanti “documenti storici” siano stati prodotti di sana pianta in Russia negli anni ’90 e incasellati in quegli archivi.

Per quanto ci riguarda, tutte quelle formule le abbiamo udite anche in bocca a storici cosiddetti divulgativi, forse un po’ troppo spesso presi a modello anche a sinistra. Sarà il caso di spenderci qualche parola, anche perché, nonostante il tema centrale sia “Stalingrado”, ogni riflessione parte necessariamente dall’inizio dell’aggressione nazista all’URSS, il 22 giugno 1941.

E, per arrivare a Stalingrado e a quella che qualcuno chiama “calderone”, o più esattamente sacca (in lingua tedesca, Kessel = caldaia, paiolo; ma, in termini militari: sacca, e Kesselschlacht = battaglia di accerchiamento. Anche in lingua russa, kotël = caldaia; ma, ugualmente si intende una sacca, l’accerchiamento di consistenti forze nemiche) in cui finirono un quarto di milione di soldati della Wehrmacht, c’è da passare dalla ritirata fino alle porte di Mosca, poi dalla controffensiva di dicembre e poi ancora attraverso una serie di scontri che, per buona parte del 1942, videro l’Esercito Rosso in grave difficoltà.

Fino, appunto, alla svolta dell’autunno-inverno del ’42 e alla vittoria di Stalingrado del 2 febbraio 1943.

Una vittoria che, più e oltre che sul piano militare, pesò su quello politico e di massa: la Wehrmacht non era più invincibile e quei generali sovietici che avevano ceduto città dopo città, cominciarono a ragionare in termini di vittoria.

Concretamente, la battaglia che avrebbe veramente segnato la svolta definitiva della guerra, dopo alterne vicende nell’area di Khar’kov, si sarebbe combattuta, nel luglio successivo, attorno al “saliente” di Kursk, tanto da provocare l’allarme anglo-americano per una veloce avanzata sovietica, avversa ai loro piani, e convincere gli “alleati” ad affrettare lo sbarco in Sicilia, con la conseguente caduta di Mussolini.

Per la verità, che l’Esercito Rosso non fosse affatto disposto a seguire l’esempio franco-inglese del 1940 e farsi battere in poco più di un mese nella “strana guerra”, lo aveva dimostrato la resistenza attorno a Smolensk, che trattenne per quasi due mesi l’avanzata tedesca.

Questo, tanto per ricordare agli storici “divulgativi” che ci raccontano che «nelle prime settimane di invasione i tedeschi avanzavano a velocità folle» in territorio sovietico, come, di fatto, se le divisioni corazzate tedesche, tra 22 giugno e 10 luglio ’41, coprirono i primi 700 km tra Brest e Smolensk alla velocità di 34 km al giorno (con punte di 70 km: coprirono i 350 km da Brest a Minsk in cinque giorni e i successivi 350 in circa dieci giorni) già in settembre, conclusa la battaglia di Smolensk, coprirono ancora 300 km alla velocità di 3,7 km e i rimanenti 30 km fino alla battaglia di Mosca con un’avanzata di 2 km al giorno.

E si può dire che senza lo spostamento delle frontiere di 300 km verso ovest, dato dall’Accordo di non aggressione sovietico-tedesco, (che aveva permesso di riunire all’URSS le regioni occidentali di Bielorussia e Ucraina, fino al 17 settembre 1939 occupate dalla Polonia) tanto esecrato in campo liberale, la battaglia attorno a Smolensk si sarebbe forse combattuta attorno a Mosca, e non è chiaro come sarebbe finita, non solo per l’URSS, ma anche per le “democrazie occidentali”.

Dai documenti tedeschi sulle perdite umane della Wehrmacht, emerge che nei primi sessanta giorni di guerra sul fronte orientale, l’esercito tedesco perse tanti soldati quanti ne aveva persi nei precedenti 660 giorni su tutti i fronti, cioè durante gli attacchi a Polonia, Francia, Belgio, Olanda, Norvegia, Danimarca, Jugoslavia, Grecia, comprese le battaglie per Dunkerque e in Nord Africa.

Viktor Čečevatov scrive che, il 28 agosto 1941, un rapporto al Capo di stato maggiore delle forze di terra tedesche, generale Franz Halder, recitava: «Unità del 3° Gruppo Panzer: la 7° Divisione Panzer ha il 24% del numero iniziale di carri armati. Il resto delle divisioni di questo gruppo, in media, ha il 45% di carri. Le unità del 1° Gruppo Panzer hanno perso in media il 50% dei loro carri. Le unità del 2° Gruppo Panzer, in media, hanno il 45% dei carri».

In tutta la guerra, l’Esercito Rosso liquidò 607 Divisioni nemiche, mentre USA e Inghilterra soltanto 176 su tutti fronti. È così che «i tedeschi avanzavano a velocità folle».

Ora, non è possibile negare vari errori di valutazione da parte dei comandi sovietici, su dove si dovesse attendere il colpo principale nazista, se attraverso la Lituania, per puntare su Minsk e quindi direttamente su Mosca, oppure contro il Fronte meridionale sovietico, attraverso l’Ucraina e verso sud: dunque, su quale dei fronti dovesse concentrarsi il grosso della difesa sovietica.

Così pure, non è possibile negare una certa sprovvedutezza, ad esempio, nel fatto che, quando ancora non erano state completate le fortificazioni sulla nuova frontiera, si procedeva già a sguarnire le vecchie linee difensive.

In prossimità dell’ultimo periodo prebellico, si procedette alla contemporanea riorganizzazione dei principali generi di truppe nelle Regioni militari frontaliere, col risultato che, al momento dell’aggressione tedesca, si trovarono incompleti unità e reparti di fanteria, corazzati, motorizzati, ecc.

Inoltre, nonostante si tenesse conto dell’esperienza dell’attacco tedesco a ovest, ci si preparava a un inizio di guerra più “diluito” nel tempo, così che nel settore di penetrazione, in cui si concentrò il colpo principale tedesco, la Wehrmacht disponeva di una superiorità di 3-4 a 1.

Nelle considerazioni dello Stato Maggiore sovietico, si diceva che il nemico avrebbe avuto bisogno di almeno 15 giorni per lo spiegamento strategico delle forze principali d’attacco e che le prime azioni belliche avrebbero coinvolto solo parte delle forze, lungo le frontiere; e questo, nonostante le conclusioni teoriche secondo cui la caratteristica distintiva delle operazioni tedesche a ovest, era stata il loro avvio fulmineo, con la totalità delle forze già completamente dispiegate ancor prima dell’inizio dell’attacco.

È accertato che lo Stato Maggiore tedesco conosceva perfettamente la linea messa a punto da Mikhail Tukhachevskij e seguita anche dopo il suo smascheramento, di affrontare le forze nemiche con le truppe di frontiera, senza avere alle spalle le forze principali già dispiegate. E molto altro ancora.

Ma com’è che i comandi militari sovietici commisero quegli errori? La “spiegazione” ce la fornisce un altro assioma caro a quegli stessi storici “divulgativi”: «è colpa di Stalin, è colpa delle stragi commesse da Stalin tra i comandanti dell’Armata Rossa ed è vero. L’Armata Rossa aveva grandi generali, grandi teorici della guerra di movimento. Sono spariti quasi tutti nel 1937-’38». Ed è vero?

Ci permettiamo più di un dubbio, a proposito di una formula largamente smentita dagli studi degli ultimi anni su “quantità e qualità” delle epurazioni tra i ranghi militari. Qui basti ricordare che, quando si parla di 40.000, 50.000 o addirittura 70.000 “epurati”, ci si assicura che il lettore intenda senz’altro “fucilati”.

Ora, il corpo di comando dell’Esercito Rosso era costituito da oltre duecentomila uomini; tra il 1936 e il 1940 ne vennero allontanati circa 37.000, con motivazioni relative a età, stato di salute, condotta, alcolismo, appropriazioni, violazione della disciplina, deviazioni politiche, ecc. Di questi, circa la metà, in seguito alle verifiche, vennero reintegrati e solo circa 9.000 non furono riammessi. I fucilati furono 1.634.

Non va nemmeno dimenticato il livello di preparazione dei comandi. Sulla base di una gran massa di documenti d’archivio del periodo tra il 1925 e il 1940, Andrej Smirnov (Il crollo del 1941 – le repressioni non c’entrano, Moskva 2011) constata che «nel corso delle massicce repressioni del 1937-’38 e anche dopo di quelle, l’addestramento di comandanti e soldati dell’Esercito Rosso non peggiorò affatto, ma rimase al precedente bassissimo livello».

Tant’è che nel dicembre 1940, il Commissario alla difesa Semën Timošenko constatava che la «preparazione operativa del corpo di comando superiore non raggiunge l’altezza richiesta e necessita di ulteriore perfezionamento»; che era più o meno la stessa deficienza rilevata nel dicembre 1935 dal precedente Commissario alla difesa, Kliment Vorošilov.

Il basso livello di formazione del corpo di comando poteva essere conseguenza anche della triplicazione dell’esercito tra il 1939 e il 1941, con forzata riduzione dei tempi di qualificazione.

Si potrebbe continuare per pagine, a parlare del periodo iniziale della guerra, davvero tragico per le armi sovietiche. Ma il tema precipuo è “Stalingrado” e, su questo, veramente, si concentra l’aspetto “divulgativo” della storia, così come proposta dalla rilettura liberal-democratica.

Qui, l’accento quasi esclusivo è sempre sulla malignità e malvagità dei comandi sovietici, anche ai livelli inferiori: se ci fu eroismo da parte dei soldati rossi, ci si racconta, fu un eroismo “imposto”, per non vedersi sparare alle spalle dai reparti di sbarramento.

Se si tenne Stalingrado, fu perché da entrambi i lati del fronte, c’erano “due tiranni” che non volevano mollare; da entrambe le parti agiva «la propaganda di due regimi totalitari», dispotici, crudeli e inumani.

Da entrambe le parti, ma soprattutto da parte sovietica (perché i tedeschi, si dice a volte tra le righe, a volte apertamente, essendo europei, agivano più “accortamente”, con “resilienza”), coi suoi tratti asiatici, si mandavano avanti i reparti senza curarsi delle perdite, come dicono oggi anche “storici” liberali russi.

Stalingrado, raccontano i “divulgatori”, mise a confronto due regimi dagli «evidenti tratti comuni» e, proprio in quei mesi di scontro tra il Volga e il Don, venne allo scoperto «la paranoia dei due dittatori e la follia omicida dei due regimi». Due dittature, due «totalitarismi, per i quali la vita umana conta fino a un certo punto» e dunque la si può mandare al macello senza pensarci. Parola di storici “divulgativi”.

Anzi, parola di storici che si basano su fonti inoppugnabili, in quanto occidentali: «la recente storiografia inglese e americana insiste sul fatto che l’Armata Rossa ha tenuto Stalingrado anche perché viveva in un regime di terrore».

O, se non occidentali, almeno su fonti non più “totalitarie”, di quelle “ravvedutesi”, che avevano “scelto la libertà” in Occidente, si dice citando a braccio Vasilij Grossman con «una battaglia combattuta da uomini e donne prigionieri di un regime tremendo; alcuni convinti che il regime di Stalin fosse altrettanto colpevole di quello di Hitler».

Nulla di strano e nulla di nuovo: in Russia, oggi, anche a livelli di portavoce ufficiali, si sproloquia di «Stalin peggio di Hitler».

Per concludere. La vittoria a Stalingrado, che all’inizio abbiamo definito come vittoria dell’Unione Sovietica, rappresentò la vittoria di un sistema nuovo di rapporti sociali, completamente diverso da tutti i rapporti servili succedutisi nel passato: schiavistico, feudale, capitalistico.

È per questo che quella vittoria, quell’ordinamento sociale da cui la vittoria scaturì, quel nuovo sistema di pianificazione economica, fanno ancora tanta paura. È per questo che si cerca di demonizzarli e di esorcizzarli in ogni occasione, a ogni livello, servendosi anche di certa “divulgazione” che, più che storica, è innanzitutto ideologica, scaturente da “verità” di classe.

Così, ecco che l’Esercito Rosso vinse sì a Stalingrado, vinse sì quella guerra di sterminio che, portata dalle truppe hitleriane e loro alleati (Italia compresa), si prolungò per quattro anni, con l’assassinio di tanta popolazione civile quanti soldati sovietici caduti sul campo.

Ecco che l’Unione Sovietica distrusse sì il nazismo, ma lo fece nonostante il “tiranno Stalin”, nonostante il “regime di terrore sovietico”, nonostante il “totalitarismo pianificatore stalinista”...

Due dittature, due regimi totalitari, con pari responsabilità nella guerra... Ecco la “verità” di classe che, sotto forma di divulgazione storica, porta sugli schermi, in forma romanzata, quanto decretato dal Parlamento europeo il 19 settembre 2019.

Più che racconto “divulgativo” della storia, una “storia” con cui si divulga il verbo liberal-borghese.

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