L’equilibrio alla fine non c’è stato. Il “testa-a-testa” descritto da quasi tutta la stampa europea era solo un wishful thinking, una “speranziella” con scarso fondamento.
“The Donald” torna da trionfatore alla guida degli Stati Uniti e si salva così dalla marea di processi che lo attendono, ormai inutilmente.
Gli “swing states”, quelli sempre incerti tra repubblicani e “democratici” sono stati tutti conquistati, spesso con largo margine. Lo scrutinio è ancora in corso mentre scriviamo – le 8 di mattina, ora italiana – ma lo scarto è quasi sempre tale che anche il voto per corrispondenza, tradizionalmente a favore dei “blu”, difficilmente potrà rovesciare il risultato finale.
In estrema sintesi: con il 95% delle schede scrutinate il Wisconsin dà a Trump il 51,3% contro il 47 a favore di Harris; in Michigan la conta è solo al 70%, ma il vantaggio per l’immobiliarista indebitato è di sette punti percentuali. La Penssylvania, mai davvero in bilico, ha portato i “grandi elettori” per Trump a 267, appena tre in meno della maggioranza assoluta necessaria.
Già così il numero di “grandi elettori” per il tycoon sarebbe sufficiente. In più ha già in tasca l’Alaska (quasi il 20% di scarto, anche se con appena un quarto di schede scrutinate). Solo nel semidesertico Nevada e in Arizona la situazione è ancora incerta, con un divario ridotto ma con pochi “grandi elettori” in gioco. Anche la maggioranza al Senato, decisiva per non dover contrattare continuamente con l’opposizione sulle misure da adottare, è solidamente nelle mani del palazzinaro di Queens.
Dunque i giochi sono fatti, anche se Harris ancora non ammette la sconfitta.
Cosa cambierà, a questo punto, per il mondo e l’America?
Trump ha già trascorso quattro anni alla presidenza, e non si può dire che abbia cambiato granché, né all’interno degli States né nella politica estera.
Certo, c’è stato più spazio per le tradizionali posizioni reazionarie su immigrati, aborto, minoranze etniche, ecc. E sicuramente la “classe media” (una categoria molto elastica che va dalla piccola borghesia alla classe operaia con contratti regolari non precari) non ha visto quasi nulla di concreto nelle mirabolanti promesse elettorali dispensate già otto anni fa.
Quello che è certamente cambiato, all’interno, è stata la dimensione della frattura politica ed istituzionale. Trump – come Berlusconi e le destre europee – ha messo fine al “gentleman agreement” per cui repubblicani e democratici si riconoscevano reciprocamente come legittimati a governare, unendo gli sforzi e cancellando differenze politiche molto superficiali quando si trattava di affermare “gli interessi dell’America”.
Il suprematismo yankee è – ed è stato sempre – il vero collante della classe politica, dell’imprenditoria di qualsiasi dimensione e in fondo dello stesso “sogno americano”.
La rottura introdotta da Trump in questo schema è in effetti notevole: ha tolto il riconoscimento alla controparte, ha cancellato il rispetto della legge e delle sentenze giudiziarie (negli Usa la magistratura inquirente – le Procure, insomma – viene eletta, mentre i giudici sono di carriera), involgarito il dibattito politico fino a ridurlo ad uno scambio di insulti personali da cui esce sempre come il più aggressivo, tranchant, feroce. E dunque “vincente”, come nell’immaginario demente del machismo universale.
Nella politica estera ha aumentato la distanza con l’Europa, quasi svuotato la Nato della sua importanza (e dei finanziamenti), chiamando i partner a farsi carico delle spese militari utili alla politica americana.
Ha sempre pienamente e fanaticamente sostenuto qualsiasi follia suprematista di Israele, indicando nell’Iran (e l’“asse della resistenza”) il nemico numero uno in Medio Oriente.
Ha provato a dividere Russia e Cina, lusingando in minima parte la prima e provocando – anche economicamente, con i dazi – la seconda. Ha ripreso la tradizionale politica di conquista e difesa del “cortile di casa”, ovvero il controllo (difficile) dell’America Latina e di quella Centrale. Dunque non è una buona notizia la sua rielezione, per Cuba, Venezuela e gli altri paesi dell’Alba. Così come lo è per i palestinesi e l’Iran.
A differenza di otto anni fa, quando entrò per la prima volta alla Casa Bianca, c’è però un fenomeno internazionale nuovo come i Brics+, che si vanno allargando e arricchendo di candidature proprio perché quasi tutti i paesi del mondo si rendono ormai conto di avere una possibilità di svilupparsi davvero solo sottraendosi al dominio del dollaro e dunque degli Stati Uniti.
E proprio questa differente catena di relazioni internazionali, che già ora comprende parti importanti del mondo musulmano, sia sciita che sunnita, sembra costituire un intralcio serio anche alla dichiarata volontà Usa (bipartisan, ma certo più estrema nella retorica trumpiana) di aggredire Tehran sia attraverso Tel Aviv che direttamente.
Come si vede, si tratta di un quadro parecchio più articolato – ed anche pericoloso – di quello tratteggiato dagli speranzosi “democratici” europei, che già vanno velocemente cancellando tutti i post e le dichiarazioni che lo indicavano come un “pericolo per la democrazia”, pronti come sempre a baciare la scarpa dell’Imperatore di Washington.
Un quadro che indubbiamente spinge a moltiplicare gli sforzi per irrobustire la resistenza antimperialista e antifascista, mettendo definitivamente in soffitta le illusioni sul ruolo “civilizzatore” degli Stati Uniti.
L’imperatore è nudo, fa schifo e si vede benissimo. Nessuna cipria lo può più nascondere. Va solo contrastato davvero.
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