L’Esposizione universale che comincerà
il 1° maggio e terminerà il 31 ottobre si intitolerà “Nutrire il
Pianeta, Energia per la vita”. Sostituendo le parole pianeta e vita con
il termine capitalismo, appare evidente come la vetrina dell’Expo
rappresenti il crogiolo di tutte le contraddizioni, l’ennesimo gigante
fieristico che serve a rilanciare gli interessi capitalistici italiani e
non solo. L’azionariato di Expo spa è composto per il 40% dal Ministero
dell’Economia, per il 20% dalla Regione Lombardia, il 20% per il Comune
di Milano, il 10% per la Provincia di Milano e il 10% dalla Camera di
Commercio Industria Agricoltura e Artigianato. Dunque a partecipazione
in maggioranza pubblica mentre partner ufficiali quali Enel, Telecom,
Fiat-Chrysler, Intesa-San Paolo, Samsung e Selex (facente parte del
Gruppo Finmeccanica) parteciperanno in misura minima per quanto riguarda
le spese, ma in misura enorme per quanto riguarda profitti e
visibilità. Parliamo di un Consiglio di amministrazione presieduto dalla
vicepresidente di Confindustria che è anche a capo del Gruppo Bracco
(operante nel settore chimico farmaceutico). Perfino il terreno su cui
sorge, circa 100 ettari, è di proprietà della Arexpo Spa (divisa in
quote tra Regione, Comune di Milano, Comune di Rho, Provincia e
Fondazione Fiera), la quale ha ceduto i diritti di superficie al grande
evento fino al 2016. “Portano soldi, fanno girare l’economia”: questa
l’opinione comune. Soldi a chi? Stiamo parlando di soldi pubblici che porteranno a valorizzare i grandi capitali privati: una logica per niente dissimile da quella del socializzare le perdite per privatizzare i profitti,
il mantra esemplificativo di questa crisi.
Poco vogliamo in questa sede
concentrarci sulle denunce di corruzione che da sempre accompagnano i
meccanismi capitalistici, le grandi esposizioni fieristiche, gli appalti
e le grandi opere, ma anche la gestione dei Cie, come emerso dagli
stralci dell’inchiesta “Mafia capitale”: gli ultimi arresti per l’Expo
non sono altro che la regola che conferma la regola. Gli aspetti
“informali” della legge. Vogliamo invece soffermarci sugli aspetti
“formali”: l’Expo non fa altro che configurarsi come il più
grande concentrato di sperimentazione finora mai fatta secondo gli
ultimi dettami della recente ristrutturazione del lavoro. Il
Jobs Act partorito dal governo Renzi, espressione di quella fetta di
borghesia in linea con gli interessi europeisti, rappresenta il passo
ulteriore di un capitalismo volto a spremere sempre di più i lavoratori
tramite un abbassamento del costo del lavoro (attraverso tagli
salariali, licenziamenti, eliminazione delle tutele ovvero aumento di
ricattabilità e precarietà) e, ove possibile, un innalzamento della
produttività (attraverso dilatazione dell’orario di lavoro,
accrescimento dei carichi di lavoro ecc). Con la nuova legge viene
sancita, di fatto, la praticabilità dei licenziamenti economici:
il reintegro, un tempo utile anche per assicurare ai lavoratori
indennizzi adeguati dopo il licenziamento, appare come un lontano
miraggio. Inoltre, l’equiparazione di licenziamenti individuali e
collettivi, assieme ad ulteriori forme di elasticità per quanto riguarda
la mobilità, comporta di fatto uno scavalcare i sindacati, che siano
più o meno conflittuali. I principali di questo modello sono personaggi
come Farinetti e Petrini nell’accoppiata Eataly e Slow food,
assolutamente interni al blocco socio-economico renziano, così come
tutta l’articolazione delle cosiddette “cooperative rosse”, che di rosso
hanno soltanto il sangue dei lavoratori: un mondo fatto di pubblicità
scintillanti e retorica del buon cibo sotto il marchio italiano che
nasconde una realtà di contratti a tre giorni/una settimana, turni
massacranti ed il calpestamento dei più elementari diritti. Non sfugge
la partnership DHL Eataly siglata in vista di Expo: a
dispetto del marketing dalla retorica nazionale, essa è sempre più volta
ad esportare i propri prodotti nel mondo avvalendosi di quei colossi
della distribuzione contro cui si scontrano con determinazione i
facchini della logistica.
“L’Expo porta lavoro”: ma che tipo di lavoro? A
fronte delle centinaia di migliaia di posti di lavoro auspicati,
possiamo parlare fino ad ora di circa 18.500 assunzioni previste. Tutte
secondo la retorica della flessibilità. Con l’Accordo del 23
luglio 2013 siglato con la complicità dei sindacati confederali si ha la
codificazione formalizzata del lavoro non pagato; termina l’opera l’accordo quadro del maggio 2014
che si fa promotore della “politica della non belligeranza” (tendenza
sempre più confermata dalla dinamica padroni/grandi sindacati i quali
vengono sempre meno anche alla loro funzione storica di concertazione)
tramite l’istituzione di un “Osservatorio partecipanti” come luogo in
cui conciliare e risolvere il conflitto fra datori di lavoro e impiegati,
estromettendo di fatto l’arma contrattuale dello sciopero. Delle
migliaia di persone impiegate per l’Expo tra la costruzione di
padiglioni e sei mesi espositivi: 9000 sono impiegati dagli appaltatori e
5000 selezionati dalla ManpowerGroup (non
dimentichiamo infatti il ruolo sempre più attivo di veri e proprio
intermediario ricoperto dalle agenzie di collocamento). Vi è largo uso
di apprendistati, stage e tirocini con forme di
flessibilità quali 7 giorni su 7, stipendio medio sui 500 euro (fino a
picchi massimi di 700-800 mensili) quando il rimborso non è costituito
dal buono pasto giornaliero come per la figura del volontario, la figura lavorativa di gran lunga più impiegata all’interno dell’Expo.
Il lavoro gratuito canonizzato come ultima frontiera del moderno
sfruttamento: attuato da aziende appaltate, direttamente tramite il
comune di Milano, il servizio civile o il reclutamento nello scuole
medie secondarie tramite i Centri di Servizio per il volontariato
(Csvnet), con la vana promessa di una qualche visibilità, di una qualche
inclusività di rete nel mondo del lavoro. Il legame sempre più stretto
fra una formazione sempre più votata alla precarietà grazie alle ultime
riforme appare rinsaldato grazie alle ultime parole di Poletti in
cui si lamentava del fatto che “3 mesi di vacanza sono troppi”, che
almeno uno di questi sia impiegato dagli studenti con 5 ore al giorno di
formazione sul campo, ovvero lavoro. Tutto questo per quanto riguarda
l’accoglienza e l’esposizione: per i lavori di costruzione, è di pochi
giorni fa la notizia della morte di Klodian, un operaio
di 21 anni morto sul lavoro. In un paese dove le morti bianche, che
altro non sono che morti nere, vere e propri omicidi, avvengono ogni
giorno a ritmo serrato non può stupire purtroppo la politica elusione
delle più elementari norme di sicurezza sul lavoro, sposata dai cantieri
Expo per finire in tempo i padiglioni. Padiglioni in cui Stati come la Turchia e gli Usa si ripuliranno la coscienza dalla loro politiche di assassinio e sfruttamento; in cui multinazionali del calibro di Coca Cola, Nestlè, McDonald’s, Samsung mostreranno il loro volto presentabile. Il padiglione più gettonato sarà quello di Israele
quale ospite d’onore della fiera, proprio a fianco di quello italiano:
si intitolerà “Campi di domani”. Poco importa a chi stringe affari se lo
stato sionista affama la popolazione palestinese da più di mezzo
secolo, se sfrutta le risorse agricole e idriche-arabo palestinesi
(ricordiamo l’accordo Acea-Mekorot, società idrica
nazionale israeliana) e complice delle politiche più aggressive insieme
ai suoi alleati occidentali nel medio-oriente. Sionista sarà anche la
security del mega evento, gestita dalla Selex, multinazionale fornitrice dell’esercito israeliano.
L’Expo 2015 di Milano non rappresenta
niente di diverso dai meccanismi capitalistici usuali: concentra dentro
di sé le principali contraddizioni dell’economia italiana e
internazionale. L’Esposizione delle politiche di asservimento e
sfruttamento nei confronti della classe lavoratrice. I motivi per cui
opporsi contro questi raduni capitalistici sono molti, tanti e giusti,
tanti quanto quelli per cui lottare ogni giorno: contro le grandi opere
inutili e la corruzione, per l’ecologismo e i beni collettivi, per
l’anti-imperialismo l’anti-sionismo e l’internazionalismo, contro la
scuola e l’università “azienda” ma contro le politiche di attacco ai
lavoratori nella ristrutturazione del mercato del lavoro in questa
crisi. Per questo il primo maggio saremo in piazza, consci
dell’importanza di un momento come l’Expo per portare in campo le lotte
reali che si concretizzano quotidianamente.
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