Da Buenos Aires, Dario Clemente.
Dal 10 all’11 aprile a Panama si è svolto il settimo meeting delle
Americhe, una conferenza internazionale nata nel 1994 sotto la tutela
dell’Organizzazione degli Stati Americani a guida statunitense. Questa
edizione avrebbe dovuto concretizzare con la storica partecipazione di
Cuba quel “cambio di rotta” nei rapporti nord-sud che Obama aveva
promesso al summit di Trinidad nel 2009, a pochi mesi dalla sua prima
elezione. Si trattava questa dell’ultima partecipazione per il primo
presidente nero della storia degli Stati Uniti, che però è uscito di
scena prima della conclusione dei lavori.
Se gli incontri degli anni ’90 avevano
riflettuto il periodo neo-liberale del consenso di Washington imposto
dai vincitori della guerra fredda, promuovendo l’Alca, l’accordo per
istituire una zona di libero commercio che avrebbe dovuto unire tutto il
continente, gli Usa hanno tuttavia successivamente perso il controllo
della loro creatura.
Nel meeting di Mar del Plata (Argentina)
del 2005, i presidenti sudamericani avevano ribaltato il tavolo,
rigettando l’applicazione dell’Alca e lasciando Bush Jr. con un pugno di
mosche in mano.
I meeting di Trinidad e Tobago (2009) e
Cartagena (Colombia, 2012) hanno poi approfondito il solco tra
Washington e quella parte di Sudamerica che si stava amalgamando attorno
alla leadership di Brasile, Argentina e Venezuela. L’ultimo incontro in
particolare si era chiuso senza una dichiarazione conclusiva comune,
data l’indisponibilità di Stati Uniti (e Canada) ad affrontare i temi
dello stop alla “War on drugs” e del reintegro di Cuba, condizione che
molti paesi avevano indicato come imprescindibile per una loro
partecipazione al summit di quest’anno.
Da quel momento, come abbiamo raccontato,
la diplomazia statunitense si è messa in moto per attuare un
riavvicinamento con l’Havana, concretizzatosi negli scorsi mesi.
Significativamente, l’invito esplicito da parte di Panama a Cuba non era
stato direttamente contestato da Washington, lasciando intendere che si
sarebbe verificato il primo incontro Raul Castro - Obama dai funerali di
Mandela nel dicembre 2013.
Ciononostante il tenore degli ultimi summit era stato tale che alcuni dagli Stati Uniti in passato avevano chiesto ad Obama di non partecipare,
evitando altre contestazioni, soprattutto in seguito all’ordine
esecutivo con cui lo scorso 9 Marzo il presidente Usa aveva dichiarato
il Venezuela una minaccia alla sicurezza nazionale e inasprito le
sanzioni. Per lo stesso motivo, le sanzioni a Caracas, la richiesta veniva avanzata dalla sinistra latinoamericana nei confronti dei paesi solidali con la repubblica bolivariana.
Alla fine nessuno ha boicottato
l’incontro, ma, foto con Raul Castro a parte, il copione che Obama
portava sotto il braccio è stato stravolto nuovamente.
Il meeting, che ufficialmente dura 5
giorni e verte su temi quali la sicurezza, accesso alle tecnologie,
calamità naturali, riduzione della povertà, infrastrutture e
cooperazione, è in realtà importante soprattutto per la riunione - in
parte in pubblica in parte no - tra capi di Stato che si svolge negli
ultimi giorni, e che permette di “tastare il polso” delle relazioni
politiche a livello continentale.
A Panama i temi ufficiosi erano la
situazione delle isole Malvinas-Falklands, la lotta al narcotraffico, il
pieno reintegro di Cuba nel sistema regionale e soprattutto la
relazione Stati Uniti-Venezuela. Tema che ha finito per monopolizzare la
discussione, nonostante gli sforzi di Obama per distendere gli animi
nei giorni precedenti, dichiarando che il Venezuela “non è veramente una minaccia” (ma senza ritirare l’ordine esecutivo) e annunciando la rimozione di Cuba dalla lista dei paesi sponsor del terrorismo.
Qui, dopo l’anelato discorso di Castro,
che ha elogiato Obama ma ha ripercorso la storia di Cuba senza fare
sconti, denunciando il blocco economico nordamericano e la politica di
ingerenza negli affari dell’isola, sono intervenuti il presidente
venezuelano Maduro e Cristina Kirchner, presidentessa argentina.
Maduro si è scagliato contro le nuove
sanzioni e il supporto che gli Stati Uniti forniscono alle manovre di
destabilizzazione della opposizione venezuelana, mentre la Kirchner se
l’è presa con il cuore del messaggio che la diplomazia Usa ha portato
all’incontro, ovvero “scordiamoci il passato”. Alla promessa di Obama di
non volersi occupare “di cose e conflitti nati prima di me”, la
presidenta ha ricordato
l’importanza della storia, dal colonialismo al neo-colonialismo, nel
determinare una situazione attuale di grandi disparità nel continente.
Due giorni prima della morte del grande scrittore uruguayano Eduardo
Galeano, la Kirchner ha ricordato al mondo che le vene dell’America
Latina sono ancora aperte.
Ma Obama, probabilmente su indicazione
del suo staff, una volta messosi in tasca il “selfie” con Castro è
tempestivamente uscito di scena, non assistendo ai discorsi dei suoi
pari.
Maduro e Cristina Kirchner non hanno
avuto un duro scambio di opinioni solo con Obama, però. Nei giorni
immediatamente precedenti e successivi all’incontro, le due ex potenze
coloniali sono arrivate ai ferri corti con Caracas e Buenos Aires.
Prima il ministro della difesa inglese aveva dichiarato
di considerare l’Argentina “più che una minaccia” per le isole
Malvinas/Falklands, annunciando che saranno spesi 280 milioni di
sterline nei prossimi 10 anni per difendere al meglio i 1500 abitanti
dell’isola (e le risorse disseminate nelle sue acque costiere),
ricevendo per tutta risposta dalla ambasciatrice Alicia Castro l’accusa
di fare propaganda imperialista e menzognera, opinione che la
presidenta ha ripetuto anche a Panama, comparando le relazioni
Usa-Venezuela con la permanenza degli inglesi nelle isole dell’atlantico
a 400 km dalle coste argentine.
Successivamente il parlamento spagnolo ha approvato una risoluzione che chiedeva la liberazione dei “prigionieri politici” venezuelani, riferendosi ai leader dell’opposizione incarcerati nell’ambito delle indagini
sulle manovre per destabilizzare il governo cominciate l’anno passato.
Ambedue le cancellerie hanno inoltrato proteste ufficiali agli
ambasciatori, mentre ad inasprire ulteriormente le relazioni è la
notizia che l’ex presidente socialista Felipe Gonzalez difenderà uno degli accusati, il sindaco di Caracas Antonio Ledezma.
A livello contenutistico l´incontro ha
fondamentalmente rimesso sul tavolo ciò che era uscito dal meeting di
Cartagena nel 2012, questioni ignorate dai nordamericani, che per questo
hanno impedito nuovamente la scrittura di un documento congiunto: lo
status delle isole Malvinas/Falklands, considerate un retaggio
coloniale, la fine del bloqueo cubano e in generale le relazioni
Washington-America Latina, pessime a causa delle ingerenze in Venezuela.
Non c’è una convergenza nemmeno riguardo
alla lotta al narcotraffico, nella quale si richiede a Washington un
cambio di paradigma rispetto alla “War on drugs” e una maggior
assunzione di responsabilità da parte dei paesi “consumatori” del nord.
Ancora Cristina Kirchner ha efficacemente riassunto il problema:
“Dove si ricicla il profitto del narcotraffico? Nei paesi produttori o
nei paradisi fiscali e nei paesi consumatori? La droga vale 2.000
dollari all’uscire dal paese, e arriva a Chicago che ne vale 40.000. I
paesi sviluppati si prendono i soldi e la droga, i morti e le armi
rimangono in America Latina.”
Oltre il summit
Il meeting di Panama costituiva un passaggio fondamentale nella strategia di riavvicinamento al Sudamerica che Washington ha intrapreso, dopo aver lasciato per anni il campo libero alla penetrazione del capitale cinese ed aver assistito dalla platea al rafforzamento dell’integrazione regionale, istituzionalizzatosi nell’Unasur e nella Celac, tutti organismi da cui gli Stati Uniti sono esclusi. In questo senso la tappa ai Caraibi di Obama prima dell’incontro di Panama è stata considerata come una mossa per assicurarsi almeno l’appoggio del Caricom, tentativo non completamente riuscito.
Il meeting di Panama costituiva un passaggio fondamentale nella strategia di riavvicinamento al Sudamerica che Washington ha intrapreso, dopo aver lasciato per anni il campo libero alla penetrazione del capitale cinese ed aver assistito dalla platea al rafforzamento dell’integrazione regionale, istituzionalizzatosi nell’Unasur e nella Celac, tutti organismi da cui gli Stati Uniti sono esclusi. In questo senso la tappa ai Caraibi di Obama prima dell’incontro di Panama è stata considerata come una mossa per assicurarsi almeno l’appoggio del Caricom, tentativo non completamente riuscito.
Strategia necessaria perché nonostante i
paesi sudamericani siano divisi in blocchi il cui livello di inimicizia
con gli Usa è assai variabile (vicinanza con México, Honduras,
Colombia, Cile e Costa Rica, competizione con i paesi dell’Alba,
mediazione con i paesi Unasur) la tendenza recente è quella di una
sostanziale omogeneità di vedute rispetto ad alcune questioni
fondamentali (33 dei 35 rappresentanti presenti hanno votato
favorevolmente al rigetto delle sanzioni contro Caracas, per esempio).
Molti analisti si sono quindi chiesti se ha ancora senso per Washington partecipare ad
incontri in cui uscire vincitori, materialmente e simbolicamente,
sembra ormai impossibile, accumulandosi anzi i rospi che la diplomazia
Usa deve puntualmente ingoiare. Senonché, ovviamente, rinunciare a
presenziare ad incontri regionali di tale importanza costituirebbe un
altro passo indietro, decisamente fuori dall’ex “cortile di casa”.
In questo senso anche il viaggio sudamericano che Papa Francesco ha annunciato
(la prossima estate visiterà Ecuador, Bolivia e Paraguay) va
necessariamente considerato come una manovra diplomatica, dopo l’azione
mediatrice tra Washington e l’Havana che la santa sede ha svolto, più o meno silenziosamente, negli scorsi mesi.
L'arretramento del fronte egemoico statunitense è ormai sotto gli occhi di tutti, quel che ancora non si capisce è come intendano muoversi le amministrazione statunitensi, ormai prive della carta ideologica per tirare dalla propria parte le classi dirigenti straniere e allo stresso tempo troppo grandi per attuare la politica del "cane pazzo" (che in parte stanno comunque attuando) in quanto si troverebbero in un condizione peggiore d'un elefante che tenta dio manovrare in una cristalleria...
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