Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

24/04/2015

Al meeting delle Americhe gli “Americani” mollano prima del gong


Da Buenos Aires, Dario Clemente. 

Dal 10 all’11 aprile a Panama si è svolto il settimo meeting delle Americhe, una conferenza internazionale nata nel 1994 sotto la tutela dell’Organizzazione degli Stati Americani a guida statunitense. Questa edizione avrebbe dovuto concretizzare con la storica partecipazione di Cuba quel “cambio di rotta” nei rapporti nord-sud che Obama aveva promesso al summit di Trinidad nel 2009, a pochi mesi dalla sua prima elezione. Si trattava questa dell’ultima partecipazione per il primo presidente nero della storia degli Stati Uniti, che però è uscito di scena prima della conclusione dei lavori.

Se gli incontri degli anni ’90 avevano riflettuto il periodo neo-liberale del consenso di Washington imposto dai vincitori della guerra fredda, promuovendo l’Alca, l’accordo per istituire una zona di libero commercio che avrebbe dovuto unire tutto il continente, gli Usa hanno tuttavia successivamente perso il controllo della loro creatura.

Nel meeting di Mar del Plata (Argentina) del 2005, i presidenti sudamericani avevano ribaltato il tavolo, rigettando l’applicazione dell’Alca e lasciando Bush Jr. con un pugno di mosche in mano.

I meeting di Trinidad e Tobago (2009) e Cartagena (Colombia, 2012) hanno poi approfondito il solco tra Washington e quella parte di Sudamerica che si stava amalgamando attorno alla leadership di Brasile, Argentina e Venezuela. L’ultimo incontro in particolare si era chiuso senza una dichiarazione conclusiva comune, data l’indisponibilità di Stati Uniti (e Canada) ad affrontare i temi dello stop alla “War on drugs” e del reintegro di Cuba, condizione che molti paesi avevano indicato come imprescindibile per una loro partecipazione al summit di quest’anno.

Da quel momento, come abbiamo raccontato, la diplomazia statunitense si è messa in moto per attuare un riavvicinamento con l’Havana, concretizzatosi negli scorsi mesi. Significativamente, l’invito esplicito da parte di Panama a Cuba non era stato direttamente contestato da Washington, lasciando intendere che si sarebbe verificato il primo incontro Raul Castro - Obama dai funerali di Mandela nel dicembre 2013.

Ciononostante il tenore degli ultimi summit era stato tale che alcuni dagli Stati Uniti in passato avevano chiesto ad Obama di non partecipare, evitando altre contestazioni, soprattutto in seguito all’ordine esecutivo con cui lo scorso 9 Marzo il presidente Usa aveva dichiarato il Venezuela una minaccia alla sicurezza nazionale e inasprito le sanzioni. Per lo stesso motivo, le sanzioni a Caracas, la richiesta veniva avanzata dalla sinistra latinoamericana nei confronti dei paesi solidali con la repubblica bolivariana.

Alla fine nessuno ha boicottato l’incontro, ma, foto con Raul Castro a parte, il copione che Obama portava sotto il braccio è stato stravolto nuovamente.

Il meeting, che ufficialmente dura 5 giorni e verte su temi quali la sicurezza, accesso alle tecnologie, calamità naturali, riduzione della povertà, infrastrutture e cooperazione, è in realtà importante soprattutto per la riunione - in parte in pubblica in parte no - tra capi di Stato che si svolge negli ultimi giorni, e che permette di “tastare il polso” delle relazioni politiche a livello continentale.

A Panama i temi ufficiosi erano la situazione delle isole Malvinas-Falklands, la lotta al narcotraffico, il pieno reintegro di Cuba nel sistema regionale e soprattutto la relazione Stati Uniti-Venezuela. Tema che ha finito per monopolizzare la discussione, nonostante gli sforzi di Obama per distendere gli animi nei giorni precedenti, dichiarando che il Venezuela “non è veramente una minaccia” (ma senza ritirare l’ordine esecutivo) e annunciando la rimozione di Cuba dalla lista dei paesi sponsor del terrorismo.

Qui, dopo l’anelato discorso di Castro, che ha elogiato Obama ma ha ripercorso la storia di Cuba senza fare sconti, denunciando il blocco economico nordamericano e la politica di ingerenza negli affari dell’isola, sono intervenuti il presidente venezuelano Maduro e Cristina Kirchner, presidentessa argentina.

Maduro si è scagliato contro le nuove sanzioni e il supporto che gli Stati Uniti forniscono alle manovre di destabilizzazione della opposizione venezuelana, mentre la Kirchner se l’è presa con il cuore del messaggio che la diplomazia Usa ha portato all’incontro, ovvero “scordiamoci il passato”. Alla promessa di Obama di non volersi occupare “di cose e conflitti nati prima di me”, la presidenta ha ricordato l’importanza della storia, dal colonialismo al neo-colonialismo, nel determinare una situazione attuale di grandi disparità nel continente. Due giorni prima della morte del grande scrittore uruguayano Eduardo Galeano, la Kirchner ha ricordato al mondo che le vene dell’America Latina sono ancora aperte.

Ma Obama, probabilmente su indicazione del suo staff, una volta messosi in tasca il “selfie” con Castro è tempestivamente uscito di scena, non assistendo ai discorsi dei suoi pari.

Maduro e Cristina Kirchner non hanno avuto un duro scambio di opinioni solo con Obama, però. Nei giorni immediatamente precedenti e successivi all’incontro, le due ex potenze coloniali sono arrivate ai ferri corti con Caracas e Buenos Aires.

Prima il ministro della difesa inglese aveva dichiarato di considerare l’Argentina “più che una minaccia” per le isole Malvinas/Falklands, annunciando che saranno spesi 280 milioni di sterline nei prossimi 10 anni per difendere al meglio i 1500 abitanti dell’isola (e le risorse disseminate nelle sue acque costiere), ricevendo per tutta risposta dalla ambasciatrice Alicia Castro l’accusa di fare propaganda imperialista e menzognera, opinione che la presidenta ha ripetuto anche a Panama, comparando le relazioni Usa-Venezuela con la permanenza degli inglesi nelle isole dell’atlantico a 400 km dalle coste argentine.

Successivamente il parlamento spagnolo ha approvato una risoluzione che chiedeva la liberazione dei “prigionieri politici” venezuelani, riferendosi ai leader dell’opposizione incarcerati nell’ambito delle indagini sulle manovre per destabilizzare il governo cominciate l’anno passato. Ambedue le cancellerie hanno inoltrato proteste ufficiali agli ambasciatori, mentre ad inasprire ulteriormente le relazioni è la notizia che l’ex presidente socialista Felipe Gonzalez difenderà uno degli accusati, il sindaco di Caracas Antonio Ledezma.

A livello contenutistico l´incontro ha fondamentalmente rimesso sul tavolo ciò che era uscito dal meeting di Cartagena nel 2012, questioni ignorate dai nordamericani, che per questo hanno impedito nuovamente la scrittura di un documento congiunto: lo status delle isole Malvinas/Falklands, considerate un retaggio coloniale, la fine del bloqueo cubano e in generale le relazioni Washington-America Latina, pessime a causa delle ingerenze in Venezuela.

Non c’è una convergenza nemmeno riguardo alla lotta al narcotraffico, nella quale si richiede a Washington un cambio di paradigma rispetto alla “War on drugs” e una maggior assunzione di responsabilità da parte dei paesi “consumatori” del nord. Ancora Cristina Kirchner ha efficacemente riassunto il problema: “Dove si ricicla il profitto del narcotraffico? Nei paesi produttori o nei paradisi fiscali e nei paesi consumatori? La droga vale 2.000 dollari all’uscire dal paese, e arriva a Chicago che ne vale 40.000. I paesi sviluppati si prendono i soldi e la droga, i morti e le armi rimangono in America Latina.”

Oltre il summit
Il meeting di Panama costituiva un passaggio fondamentale nella strategia di riavvicinamento al Sudamerica che Washington ha intrapreso, dopo aver lasciato per anni il campo libero alla penetrazione del capitale cinese ed aver assistito dalla platea al rafforzamento dell’integrazione regionale, istituzionalizzatosi nell’Unasur e nella Celac, tutti organismi da cui gli Stati Uniti sono esclusi. In questo senso la tappa ai Caraibi di Obama prima dell’incontro di Panama è stata considerata come una mossa per assicurarsi almeno l’appoggio del Caricom, tentativo non completamente riuscito.

Strategia necessaria perché nonostante i paesi sudamericani siano divisi in blocchi il cui livello di inimicizia con gli Usa è assai variabile (vicinanza con México, Honduras, Colombia, Cile e Costa Rica, competizione con i paesi dell’Alba, mediazione con i paesi Unasur) la tendenza recente è quella di una sostanziale omogeneità di vedute rispetto ad alcune questioni fondamentali (33 dei 35 rappresentanti presenti hanno votato favorevolmente al rigetto delle sanzioni contro Caracas, per esempio).

Molti analisti si sono quindi chiesti se ha ancora senso per Washington partecipare ad incontri in cui uscire vincitori, materialmente e simbolicamente, sembra ormai impossibile, accumulandosi anzi i rospi che la diplomazia Usa deve puntualmente ingoiare. Senonché, ovviamente, rinunciare a presenziare ad incontri regionali di tale importanza costituirebbe un altro passo indietro, decisamente fuori dall’ex “cortile di casa”.

In questo senso anche il viaggio sudamericano che Papa Francesco ha annunciato (la prossima estate visiterà Ecuador, Bolivia e Paraguay) va necessariamente considerato come una manovra diplomatica, dopo l’azione mediatrice tra Washington e l’Havana che la santa sede ha svolto, più o meno silenziosamente, negli scorsi mesi.


L'arretramento del fronte egemoico statunitense è ormai sotto gli occhi di tutti, quel che ancora non si capisce è come intendano muoversi le amministrazione statunitensi, ormai prive della carta ideologica per tirare dalla propria parte le classi dirigenti straniere e allo stresso tempo troppo grandi per attuare la politica del "cane pazzo" (che in parte stanno comunque attuando) in quanto si troverebbero in un condizione peggiore d'un elefante che tenta dio manovrare in una cristalleria...

Nessun commento:

Posta un commento