Partiamo dunque dalla notizia semplice semplice: ieri il ministero del Tesoro (ora accorpato a quello dell'Economia) ha collocato BoT a scadenza di sei mesi a un tasso di interesse pari a zero. In pratica, il Tesoro chiede un prestito sui mercati e tra sei mesi non pagherà nulla come “retribuzione del capitale”, limitandosi a restituire la cifra ricevuta.
L'Italia non è l'unico paese europeo a godere di questa eccezionale situazione finanziaria. Tutti i paesi del Nord Europa (Germania, Olanda, Finlandia, ecc), più paesi fuori dell'euro come Svizzera, Svezia e Danimarca, sono da qualche mese in una situazione ancora migliore perché possono addirittura restituire meno di quel che hanno ricevuto in prestito, visto che pagano interessi sia pur infinitesimamente negativi: -0,2%.
Se si spinge il tasto “evviva” il quadro è splendido: un paese in queste condizioni può rifinanziare il proprio debito gratis, o addirittura guadagnandoci, togliendo così un peso enorme dai conti pubblici (chiamato “servizio del debito”, ossia interessi).
Anche la spiegazione tecnica resta semplice: tutto merito della Bce, che da due mesi ha messo in moto il quantitative easing, cominciando ad acquistare sui mercati titoli di stato dei paesi europei (ma non della Grecia, che invece non può rifinanziarsi perché altrimenti dovrebbe pagare interessi al di sopra del 20%).
La domanda che apre la porta sul “lato oscuro” è altrettanto semplice: perché un investitore (una banca, un fondo di investimento, o persino un normale cittadino con qualche risparmio da parte) accetta di prestare i propri soldi sapendo in anticipo che non ci guadagnerà nulla o addirittura ci rimetterà qualcosina?
Qui il lettore ci deve perdonare, ma siamo obbligati – come tutti quelli che cercano la risposta a questa domanda – ad addentrarci nei “massimi sistemi”. Non lo facciamo per motivi ideologici o passione teorica, ma per le identiche ragioni addotte da uno degli editorialisti di punta de Ilsole24Ore, Alessandro Plateroti:
Per gli economisti della scuola classica, il fenomeno è scioccante: non solo è definitivamente tramontato il cosiddetto «LZB», o Level zero boundary, il livello di supporto dei tassi che si pensava non sarebbe mai stato raggiunto e infranto, ma si è entrati in un territorio finanziario inesplorato, pieno di bolle finanziarie, insidie sistemiche e incognite macroeconomiche. «Nella storia d’Europa - ha commentato Ambrose Evans Pritchard, noto commentatore economico inglese - dobbiamo tornare al Quattordicesimo secolo, quando il depauperamento delle miniere d’argento provocò una lenta contrazione monetaria, seguita dal default di Edoardo III sul debito contratto con le banche italiane e dall’epidemia della Morte Nera, innescando un devastante processo deflazionistico». Frasi da apocalisse, certamente esagerate nei toni e negli obiettivi, ma anche suggestive e soprattutto indicative della confusione che regna sui mercati, dei timori sui rischi generati dalle «bolle» (ecco l’analogia con la peste in Europa...) e soprattutto della difficoltà di prevedere gli effetti collaterali della manovra della Bce.Il “livello zero” di rendimento del denaro, in regime capitalistico, è un limite concettuale, una sorta di assioma che non necessita di dimostrazione, anzi serve ad argomentare le dimostrazioni. E le esibizioni di “competenza professionale” di pupazzi come il capo dell'Eurogruppo, Dijsselbloem. Chiunque presti soldi si attende un guadagno da questo impiego, no? Siamo nel capitalismo e dunque può funzionare solo così... O no?
Cosa significa? Che nessuno ha studiato cosa possa avvenire quando questo evento impossibile si verifica. Non è avvenuto sul piano teorico (perché era impossibile), tantomeno su quello empirico (non era mai avvenuto, se non nel Trecento, ma era il Medioevo, mica la modernità capitalistica...).
Lo stesso sconcerto provato da Plateroti è stato descritto dal più autorevole Martin Wolf, nientepopodimeno che sulla bibbia del liberismo anglosassone, il Financial Times, con un titolo che molti avrebbero definito catastrofista se scelto da un marxista: “Ecco perché l’economia globale non brillerà più”. Senza se e senza ma.
Renzi e Padoan non lo hanno letto, altrimenti non ciancerebbero di “ripresa in atto” (“ma solo dello zero virgola”).
Wolf, in particolare, indica come “stranezza incomprensibile” – oltre ai tassi di interesse sottozero – anche il fatto che la produzione reale sia mantenuta al suo livello potenziale solo al prezzo di un indebitamento finanziario crescente. Più precisamente:
La produzione è finanziariamente sostenibile
quando i modelli di spesa e la distribuzione del reddito sono tali che
il frutto dell'attività economica può essere assorbito senza creare
pericolosi squilibri nel sistema finanziario. È insostenibile
quando per generare abbastanza domanda da assorbire la produzione
dell'economia si deve ricorrere a una dose eccessiva di indebitamento, o quando i tassi di interesse reali sono molto al di sotto dello zero, oppure entrambe le cose.
Possiamo anche dire che il mercato non riesce più ad allocare in modo ottimale risorse. Ovvero un altro assioma del liberismo teorico (ideologico?) che salta come un birillo davanti a una realtà impossibile. La finanza lavora per conto proprio, indipendentemente dall'andamento dell'economia reale, da molti decenni. Certamente dalla fine degli anni '90, quando Bill Clinton abolì il Glass-Streagall Act, ossia il divieto di cumulare nella stessa banca le normali attività di raccolta dei risparmi/prestiti a famiglie e imprese con quelle tipicamente speculative della “banca d'affari”. Era una legge degli anni '30, immaginata per limitare ed evitare il ripetersi del grande crack del 1929.
Ma ora la realtà della produzione - ferma, non a caso - riprende il volatile per le zampe e lo tira giù.
Il capitalismo non funziona più. I fenomeni considerati impossibili avvengono sotto i nostri occhi. I “professionisti” dell'accumulazione sono costretti ad accontentarsi di non guadagnare nulla o di rimetterci solo poco. Per quanto può durare? Non lo sa nessuno, perché si è entrati in un territorio finanziario inesplorato, pieno di bolle finanziarie, insidie sistemiche e incognite macroeconomiche.
Allacciate le cinture...
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I tassi a zero aiutano ma l’euro paga il conto
Alessandro Plateroti
Il Tesoro ha venduto il BoT semestrale ottobre 2015 ad un rendimento pari a zero, collocando tutti i 6,5 miliardi di euro offerti a fronte di una domanda quasi doppia. E oggi, sfruttando l’onda lunga della liquidità fornita in abbondanza ai mercati dalla Banca centrale europea, il Tesoro collocherà i BTp a 5 e 10 anni con la ragionevole speranza di fissarne ulteriormente al ribasso i rendimenti, scesi negli ultimi mesi a livelli di minimo pluriennale.
Per il Governo italiano, cronicamente alle prese con un debito tra i più alti d’Europa e con un servizio sul debito tra i più onerosi, cavalcare l’onda della Bce è dunque un piacere quanto una necessità: con la ripresa economica in ritardo su quella degli altri, un rating sovrano da Paese arretrato (a quota BBB- è lo stesso dell’Azerbaijan, del Marocco, del Sud Africa, della Romania, del Brasile e della Federazione Russa ) e con un’agenda di riforme strutturali troppo spesso vittima di imboscate in Parlamento, già far parte dei 19 Paesi europei aderenti al «club dei tassi sottozero» è un privilegio su cui nessuno avrebbe scommesso all’inizio dell’anno.
Miracoli del Qe, l’Allentamento Quantitativo con cui la Bce sta combattendo inflazione e crisi: in meno di due mesi, Draghi è riuscito non solo a isolare i Paesi dell’Europa periferica dai rischi di un contagio immediato con la Grecia, ma anche a portare sotto zero i tassi di interesse sul debito sovrano con scadenze fino a 7 anni praticamente in tutta Europa, compresi i Paesi che non fanno parte dell’euro. Svezia, Danimarca e Svizzera hanno infatti oggi un tasso di sconto sotto zero: se si tiene conto che sono ben 19 i Paesi-euro che hanno tassi negativi di cui ben 5 hanno rendimenti a due e tre anni al di sotto del -0,2%, che rappresenta non solo il tasso sui depositi della Bce ma anche la soglia di esclusione dagli acquisti di debito del quantitative easing, si capisce bene come sia maturato non solo l’ingresso spagnolo ma anche quello italiano nel «club dei tassi negativi».
Per gli economisti della scuola classica, il fenomeno è scioccante: non solo è definitivamente tramontato il cosiddetto «LZB», o Level zero boundary, il livello di supporto dei tassi che si pensava non sarebbe mai stato raggiunto e infranto, ma si è entrati in un territorio finanziario inesplorato, pieno di bolle finanziarie, insidie sistemiche e incognite macroeconomiche. «Nella storia d’Europa - ha commentato Ambrose Evans Pritchard, noto commentatore economico inglese - dobbiamo tornare al Quattordicesimo secolo, quando il depauperamento delle miniere d’argento provocò una lenta contrazione monetaria, seguita dal default di Edoardo III sul debito contratto con le banche italiane e dall’epidemia della Morte Nera, innescando un devastante processo deflazionistico». Frasi da apocalisse, certamente esagerate nei toni e negli obiettivi, ma anche suggestive e soprattutto indicative della confusione che regna sui mercati, dei timori sui rischi generati dalle «bolle» (ecco l’analogia con la peste in Europa...) e soprattutto della difficoltà di prevedere gli effetti collaterali della manovra della Bce.
Anche se tutti gli occhi e l’attenzione sono concentrati sulla caduta dei tassi di interesse e sull’esuberanza delle Borse che continuano a salire malgrado le incertezze sui profitti aziendali e sul passo della ripresa economica globale, sarà bene di qui in avanti aver ben presenti anche gli effetti collaterali della manovra Bce sulla liquidità. Il denaro della Bce sembra avere infatti un effetto moltiplicatore della liquidità che va oltre ogni aspettative. Due mesi di Qe e acquisti di bond sovrani per poco più di 130 miliardi di euro hanno fatto non solo esplodere la propensione al rischio degli investitori, ma soprattutto una frenetica corsa agli acquisti di attività denominate in euro che se da un lato spinge gli asset finanziari come le azioni e i bond, dall’altro rischia di bloccare quella benefica e auspicata caduta dell’euro sul dollaro che aveva fatto ben sperare gli imprenditori italiani che esportano fuori dall’Europa e soprattutto alzato le chance di una ripresa più rapida della nostra economia.
Le cifre disponibili sui flussi di capitale spiegano bene quanto sta accadendo: il torrente di denaro che esce dalla Bce finisce in parte sui titoli di Stato spingendo i tassi sotto zero, poi in cerca di maggiore guadagno si sposta verso le azioni delle Borse europee, che per essere acquistate hanno però bisogno di euro, che a sua volta deve essere acquistato dagli investitori. I fondi di investimento globali e gli Etf specializzati sull’azionario europeo rappresentano la prima conferma: dall’inizio dell’anno a oggi, i due veicoli hanno portato in Europa 63,6 miliardi di dollari (poi convertiti in euro), il 70% in più dello stesso periodo del 2014 (fonte Epfr Global). Se poi si aggiungono gli acquisti fuori fondi - da cui è arrivata una spinta importante al rialzo del 20% registrato a ieri dall’indice delle azioni europee - effettuati comprando euro e vendendo dollari, è ancora più chiaro l’effetto devastante provocato sull’andamento ribassista dell’euro: dopo aver raggiunto il picco di 1,40 dollari nel maggio del 2014, la valuta europea ha sfiorato la parità il mese scorso per poi ricominciare a salire. Dal momento che anche ieri ha chiuso in rialzo a 1,1 dollari, si può ora affermare che in aprile, per la prima volta in 10 mesi, l’euro segnerà un rialzo sul mese precedente.
Insomma, i tassi a zero aiutano certamente i governi delle economie deboli d’Europa a gestire meglio il proprio debito, ma da soli non bastano a far ripartire il credito, l’industria e l’economia in generale. Senza contare che gran parte di questi investimenti sugli asset finanziari europei sono privi di «coperture assicurative»: a tale scopo, per investitori e speculatori, basta la polizza del Qe della Bce. Il contagio che vediamo ora è quello esercitato dai tassi tedeschi su quelli degli altri. Già, ma se poi qualcosa va storto? Come reagirà in concreto il mercato se la Grecia crolla senza aiuti, se in Spagna vince Podemos o se qualche altra crisi fuori programma dovesse esplodere tra il Medio Oriente e la Russia? Una cosa sola è certa: sui mercati come nella vita, il pasto gratis diventa sempre più difficile.
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È l’era della grande stagnazione? Ecco perché l’economia globale non brillerà più
di Martin Wolf
A un primo sguardo è uno scenario che lascia perplessi, e viene da chiedersi se sia possibile: una produzione al suo potenziale, eppure ancora insostenibile. Ma un capitolo dell'ultimo World Economic Outlook del Fondo monetario internazionale getta luce proprio su questo scenario: anzi, forse ci siamo dentro.
La produzione è al suo potenziale quando non genera pressioni inflattive o deflattive. La sostenibilità (e qui parlo di sostenibilità finanziaria, non di sostenibilità ambientale) è un concetto completamente diverso.
La produzione è finanziariamente sostenibile quando i modelli di spesa e la distribuzione del reddito sono tali che il frutto dell'attività economica può essere assorbito senza creare pericolosi squilibri nel sistema finanziario. È insostenibile quando per generare abbastanza domanda da assorbire la produzione dell'economia si deve ricorrere una dose eccessiva di indebitamento, o quando i tassi di interesse reali sono molto al di sotto dello zero, oppure entrambe le cose.
Per capire come possa venirsi a creare una situazione del genere, cominciamo con l'immaginare un'economia in equilibrio, nel senso che la quantità di denaro che famiglie e imprese vogliono risparmiare coincide esattamente con la quantità di denaro che vogliono spendere per investimenti in capitale fisico. Fin qui tutto bene.
Ma supponiamo che successivamente la crescita della produzione potenziale cali bruscamente. In questo caso scenderebbe anche il livello di investimenti auspicati, poiché lo stock di capitale necessario sarebbe inferiore. Ma non è detto che la quantità di denaro che le persone desiderano risparmiare si riduca, quantomeno non nella stessa misura: anzi, se le persone prevedono che saranno più povere in futuro, potrebbero addirittura desiderare di risparmiare ancora di più. In questo caso potrebbe rendersi necessario un drastico calo dei tassi di interesse reali per ripristinare l'equilibrio tra investimenti e risparmi.
Questo calo dei tassi di interesse reali potrebbe innescare anche un aumento dei prezzi delle attività a lungo termine, con relativa impennata del credito. Questi effetti offrirebbero un rimedio temporaneo alla stentatezza della domanda. Ma se poi il boom del credito dovesse sgretolarsi, i prestatari si troverebbero in difficoltà a rifinanziare il loro debito e la domanda si troverebbe quindi gravata di un duplice fardello. Le conseguenze nel medio termine dell'eccesso di debito e di un settore finanziario avverso al rischio aggraverebbero le conseguenze a lungo termine della crescita potenziale più debole.
Il World Economic Outlook fa luce su un aspetto importante di questa faccenda. La produzione potenziale, sostengono gli economisti del Fondo, in effetti cresce più lentamente di prima. Nei Paesi avanzati, il calo è cominciato all'inizio degli anni 2000; nelle economie emergenti, dopo il 2009.
Prima della crisi, la causa principale del rallentamento nelle economie avanzate era un calo della crescita della «produttività totale dei fattori», una misura della produzione generata da una data quantità di capitale e lavoro. Una spiegazione stava nell'attenuarsi del benefico impatto economico della Rete. Un’altra spiegazione era il calo del tasso di miglioramento delle competenze umane. Dopo la crisi, la crescita potenziale è scesa ulteriormente, in parte a causa del tracollo degli investimenti; anche l'invecchiamento della popolazione ha giocato un ruolo importante.
Pure nelle economie emergenti i fattori demografici si fanno sentire: il declino della crescita della popolazione in età lavorativa è particolarmente accentuato in Cina. Inoltre, sta diminuendo la crescita del capitale dopo il colossale boom degli investimenti negli anni 2000, e anche in questo caso soprattutto in Cina.
La crescita della produttività totale dei fattori potrebbe frenare anch'essa nel lungo periodo, man mano che rallenterà la rincorsa di Pechino alle economie avanzate.
Questo declino della crescita potenziale ci conduce direttamente al dibattito su eccesso di risparmi e stagnazione secolare. Emergono due importanti distinzioni, fra locale e globale e fra temporaneo e permanente. Il rallentamento mondiale della crescita potenziale permette di far luce su entrambe.
Locale e globale
Ben Bernanke, ex presidente della Federal Reserve, sostiene giustamente che non possono essere soltanto condizioni locali a determinare i livelli estremamente bassi dei tassi di interesse reali. In un'economia dove il desiderio di risparmio è superiore al desiderio di investimento, dovrebbe essere possibile esportare i risparmi in accesso attraverso un surplus nel saldo con l'estero: è quello che ha fatto finora la Germania.
Ma insorgono difficoltà. Innanzitutto, come osserva il premio Nobel Paul Krugman, il tasso di cambio reale potrebbe non calare a sufficienza: in questo caso, l'economia potrebbe trovarsi a soffrire di una stagnazione permanente. Secondo, il resto del mondo potrebbe non riuscire a sostenere disavanzi speculari nella bilancia delle partite correnti. È quello che è successo nella fase che ha preceduto il 2007: i deficit degli Stati Uniti, della Spagna e di una serie di altri Paesi, come contrappeso ai surplus della Cina, dei Paesi esportatori di petrolio, della Germania e di altre economie ad alto reddito, si sono rivelati spaventosamente insostenibili.
Temporaneo e permanente
Ora concentriamoci sulla distinzione, non meno fondamentale, tra eccedenze temporanee ed eccedenze permanenti del desiderio di risparmio rispetto al desiderio di investimento. La principale divergenza tra Bernanke e Lawrence Summers, l'ex segretario al Tesoro statunitense, sta proprio qui.
Bernanke ipotizza che le condizioni che generano tassi di interesse reali ultrabassi siano temporanee. Esempi ovvi in questo senso sono i surplus, ormai svaniti, dei Paesi esportatori di petrolio. Anche l'attivo che aveva la Cina nel saldo con l'estero prima della crisi in gran parte è evaporato. Perciò, anche la recessione indotta dalla crisi dovrebbe essere temporanea.
Summers sostiene invece che almeno alcune delle condizioni di cui sopra preesistevano la crisi, e probabilmente dureranno più a lungo: tra queste, la debolezza degli investimenti del settore privato nelle economie ad alto reddito.
La tesi del Fmi sul rallentamento della crescita potenziale supporta la posizione di Summers. Una crescita potenziale più bassa potrebbe essere quindi anche una crescita meno sostenibile. Se così fosse, potremmo trovarci a scoprire che l'economia mondiale è caratterizzata da investimenti fiacchi, tassi di interesse reali e nominali bassi, bolle creditizie e un debito ingestibile nel lungo periodo.
Questo scenario futuro tanto deprimente non è inevitabile, ma non possiamo dare per scontato che sarà più roseo di così. Servono riforme nazionali, regionali e globali per imprimere spinta alla crescita potenziale e ridurre l'instabilità. Quale forma potrebbero assumere queste riforme, è un argomento che rimando a un'altra occasione.
Copyright The Financial Times Limited 2015
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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