di Abdalhadi Alijla*
(Traduzione di Romana Rubeo)
Prima per
opportunismo, poi in modo sistematico, l’opinione pubblica si era
convinta del fatto che le Primavere Arabe potessero migliorare la
condizione delle donne nei paesi interessati. Anche chi aveva
osservato la lentezza di tali progressi, si sorprende oggi di come il
processo si sia bruscamente arrestato nel giro di poco tempo. Il sogno
che le donne potessero partecipare a pieno titolo alla vita politica,
economica e sociale sulla scia delle Primavere Arabe è svanito. Anzi, in
alcuni paesi, come l’Egitto, il Bahrain, la Siria, lo Yemen e la
Palestina, si è trasformato in un autentico incubo. L’aspettativa
concreta, da parte delle donne, di conquistare i propri diritti,
realizzare i propri sogni, e essere parte integrante della sfera
politica è sfumata; al contrario, si ritrovano senza speranze,
penalizzate non solo da regimi autoritari, ma da società di tipo
patriarcale.
Si potrebbe dire che le uniche conquiste delle donne nel mondo arabo
siano le parole vuote e i bei discorsi su cui sono stati versati fiumi
d’inchiostro. La realtà è ben diversa: la condizione femminile è
peggiorata fino a diventare insostenibile; anzi, le donne sono esposte
oggi a pericoli ancora maggiori. Nella maggior parte dei paesi
arabi, le donne hanno ricoperto ruoli di primo piano nelle proteste e
nelle manifestazioni e sono diventate, più degli uomini, invise al
regime. Sono state l’ultimo baluardo della rivoluzione: in
tutti i Paesi Arabi, la loro resa ha determinato il fallimento degli
obiettivi. Questo spiega perché in Egitto, Tunisia e Bahrain, le
proteste siano ancora vive nonostante le condizioni terribili imposte
dai governi, che prevedono omicidi politici, torture e detenzioni.
In Siria, oltre 16.000 donne sono state uccise, e centinaia di migliaia sono rimaste ferite o sono state arrestate[1].
Sin dall’inizio delle proteste siriane, le donne sono state le prime
vittime del regime. Se nelle prime fasi, erano gli uomini a manifestare
per invocare le riforme, in seguito alla loro assenza (dovuta
all’uccisione o all’arresto), le donne non si sono tirate indietro.[2]
Nell’ultimo anno, sono rimaste in balia delle angherie dello Stato Islamico e di altri gruppi terroristici.
I video, le foto, le storie che raccontano le pratiche a cui vengono
sottoposte sono terrificanti, oltre ogni immaginazione. Prima dello
scoppio della guerra civile, il livello di istruzione femminile in Siria
era tra i più elevati del mondo arabo, le donne partecipavano
attivamente alla vita politica, godevano di un’ampia libertà nella
scelta del proprio stile di vita e, soprattutto, avevano compiuto passi
enormi dal punto di vista delle riforme politiche, con un sensibile
aumento delle quote rosa in Parlamento. Oggi, le donne siriane
vivono nei campi profughi in Giordania, Turchia, o Libano, in case di
fortuna e tende, o anche per strada. Quelle più fortunate sono accampate
sui marciapiedi della stazione di Milano Centrale, in attesa che i
Paesi scandinavi accettino le loro richieste d’asilo.
In Iraq, la situazione non è poi tanto migliore. La
condizione delle donne irachene, già vittime della dittatura in
passato, è peggiorata in modo drammatico dopo l’invasione americana. In
seguito allo scoppio del conflitto settario tra Sciiti e Sunniti e la
formazione di milizie che si sono scagliate contro Cristiani, Assiri e
minoranze religiose, sono state proprio le donne a pagare lo scotto
maggiore, rimanendo vittime di stupri, omicidi, prigionia e tortura.
Sono state private del diritto al matrimonio esogamico al di fuori
della propria setta di appartenenza e di altri diritti sociali. Ai
gruppi settari è stato concesso di derogare alla Costituzione centrale
per quanto riguarda i diritti delle donne. Questo comporta che abusi,
violenze, matrimoni e lavori forzati siano loro imposti nella piena
legalità. L’incubo è diventato realtà quando il Ministro della
Giustizia iracheno ha proposto un pacchetto di leggi per la
legittimazione dei matrimoni in età minorile. La discriminazione ai danni delle donne in Iraq è aumentata negli anni e le prospettive non sono confortanti.[3]. Su questo tema, la Costituzione irachena del 1949 è molto più progressista rispetto al quadro attuale.
Anche in Egitto, la situazione è pressappoco la stessa, nonostante alcune peculiarità che meritano di essere analizzate.
La violenza politica generale ha avuto delle ripercussioni sul tessuto
sociale, facendo delle donne le prime vittime della lotta politica e
sociale. Sono state proprio le donne egiziane le prime a ribellarsi e a
guidare le proteste contro il regime di Mubarak. Hanno lottato, unite,
per liberarsi dalla dittatura. A dispetto delle rosee
aspettative, si è registrato un sostanziale arretramento: molti diritti
delle donne, sanciti sotto il regime di Mubarak, sono stati sottoposti a
un processo di delegificazione. A partire dal 2013, poi, l’élite femminile egiziana è stata presa di mira dal regime di Sisi. Centinaia
di donne sono state arrestate mentre protestavano per i loro diritti
sociali e politici. Non v’è dubbio che abbiano pagato uno scotto
elevatissimo: basti pensare a Shima Al Sabaag, uccisa con un colpo alla
testa durante una manifestazione ad Alessandria.
In Tunisia, il paese più liberale dell’Africa settentrionale,
le prospettive sulla conquista di diritti sociali e politici da parte
delle donne non sono così rosee. Se oggi la condizione
femminile è alquanto favorevole, potrebbe però deteriorarsi nel giro di
pochi anni. Le riforme di Bourghiba, orientate verso una maggiore
laicità e una più ampia libertà, sono state frutto di un’imposizione
dall’alto e non il risultato di un’interazione sociale e di uno scontro
tra classi con interessi contrapposti: pertanto, non sarebbe difficile
cancellarle.
Lo stesso vale per lo Yemen, il Bahrain, la Palestina e il resto del
mondo arabo. L’unica differenza sostanziale sta nel numero di donne
uccise, arrestate, violentate, o torturate. Secondo l’Istituto Varieties
of Democracy (V-dem)[4] l’accesso alla giustizia da parte delle donne è diminuito in modo sensibile dopo il 2011.
Pertanto, le donne non possono far sentire la propria voce, esercitare i
loro diritti inalienabili, combattere contro la discriminazione e le
violenze o partecipare in modo attivo alla vita sociale e politica.
Le Primavere Arabe hanno tradito le aspettative delle donne? Purtroppo sì.
Si tratta di un processo appena iniziato, non sappiamo cosa ci riservi
il futuro, ma finora, le conquiste femminili sono irrilevanti rispetto
alle dure lotte che le donne hanno intrapreso in ogni ambito. Nessuno
stato potrà avere una società realmente progredita o essere annoverato
tra i paesi sviluppati se non rispetta i diritti delle donne e non
consente loro di far parte della classe dominante. A
prescindere dalla ricchezza di una nazione, le donne sono il pilastro di
una società e devono avere pari diritti. I più veri e duraturi processi
di sviluppo iniziano dal basso, dagli individui e non dall’alto, per
imposizione di un governo o di un regime. L’unico vero cambiamento è
quello che scuote una società dal suo interno. Per questo, vorrei
chiosare con una citazione dal Corano: "In verità, Allah non modifica la
realtà di un popolo finché esso non muta nel suo intimo".
*Abdalhadi Alijla è uno scrittore, saggista e blogger
palestinese, dottore di ricerca presso l’Università di Milano. Fa parte
dell’organizzazione Soliya per la promozione del dialogo; già borsista
DAAD di Public Policy and Good Governance, collabora con l’Institute for
Middle East Studies in Canada, il Middle East Development Network di
Instanbul e il Varietes of Democracy Institute dell’Università di
Göteborg.
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