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22/04/2015

Gran Bretagna: la rivoluzione scozzese passa da Londra

Dopo la sconfitta, nel settembre scorso, del referendum per l’indipendenza della Scozia, molti analisti avevano frettolosamente e superficialmente recitato il de profundis per il Partito Nazionale Scozzese. Il loro affondo aveva raccolto appena il 45% dei consensi, il segretario Alex Salmon si era dovuto dimettere e una nuova consultazione sul distacco da Londra veniva rimandata sine die. E così come la grande stampa italiana e internazionale aveva repentinamente scoperto la Scozia così l’aveva rapidamente restituita all’oblio.

Ma ecco che, pochi mesi dopo, incredibilmente la questione scozzese è di nuovo sulle pagine dei nostri giornali, inusitatamente in occasione delle cronache per le elezioni del parlamento britannico, tradizionale feudo dei due grandi partiti che si sono alternati al potere negli ultimi numerosi decenni incarnando quel bipolarismo maggioritario al quale si sono ispirati generazioni di (contro)riformatori e liberisti anche italiani.

Il fatto è che – che l’antidemocratico e vetusto sistema elettorale lo permetta o meno – il sistema politico britannico non è più da tempo bipartitico e bipolare. Sulla scena già durante la scorsa tornata fecero irruzione i Liberaldemocratici che, grazie ad un inaspettato exploit, ruppero il tradizionale pigliatutto di Laburisti e Conservatori e forti della loro consistente pattuglia parlamentare obbligarono questi ultimi ad accettarli nel primo governo di coalizione che numerose generazioni di sudditi di sua Maestà abbiano visto. Un’esperienza disastrosa per la Gran Bretagna e anche per i Liberaldemocratici che, stando ai sondaggi, alle prossime elezioni verranno ampiamente puniti per la svendita del loro programma elettorale dato in pasto alle compatibilità dettate dai Tories che nonostante l’alleanza con i LibDem hanno governato come hanno sempre fatto: favorendo i ricchi e peggiorando le condizioni di tutti gli altri.

Nel frattempo l’insofferenza dell’elettorato britannico non solo non è rientrata ma è cresciuta, e così sulla scena di affacciano nuovi soggetti in grado di affermarsi in maniera consistente. Intanto la destra populista, nazionalista e xenofoba dell’Ukip – il partito per l’indipendenza della Gran Bretagna – che facendo leva sui messaggi egoistici e isolazionistici contro immigrazione e Unione Europea tenta di fare il colpaccio, sottraendo elettori ai Tories e convincendo a votare un elettorato di destra tradizionalista che non sempre si reca alle urne in una ‘democrazia stitica’ qual è quella di Sua Maestà Britannica.

Ma a parare il colpo “a sinistra” di un Partito Laburista sempre più sbiadito sul fronte riformista e sempre meno credibile ecco affacciarsi i verdi – dati al 6-7% – e soprattutto quel Partito Nazionale Scozzese che potrebbe incassare non solo una barca di voti al di sopra del Vallo di Adriano, ma raccattarne parecchi anche molto più a sud, diventando punto di riferimento di un elettorato di sinistra più o meno moderata che pur di dare un segnale al paese e al renziano portavoce laburista Miliband pare disponibile – dicono i sondaggi – a votare per il partito che vuole "strappare l’Union Jack".
I nostri media si sono accorti che qualcosa sta accadendo da quelle parti quando nel corso di un dibattito elettorale trasmesso dalla BBC la candidata verde Natalie Bennett, il primo ministro scozzese e leader dello Scottish National Party Nicola Sturgeon e Leanne Wood del Plaid Cymru (il partito indipendentista gallese) si erano abbracciate. Il giorno seguente il commento più arguto dei media nostrani era stato che a Londra ‘l’opposizione è donna’ o simili. Alla maggior parte dei commentatori era sfuggito che quell’abbraccio possa nascondere una parziale rivoluzione degli equilibri politici britannici.

Nel corso dei 90 minuti del dibattito la candidata della sinistra scozzese aveva chiarito che "Certamente condividiamo il desiderio di vedere i conservatori fuori dal governo, ma non vogliamo sostituire i tories con un governo 'tory light', indicando di essere quindi pronta a sostenere un'alleanza progressista con i verdi e i nazionalisti gallesi.

Un’alleanza, anche di governo, che dovrebbe includere i laburisti, se non fosse che senza indugio il loro leader, lo stinto Miliband, abbia già chiarito di non avere alcuna intenzione di accettare i voti degli indipendentisti scozzesi per formare il prossimo esecutivo. All’invito rivoltogli dalla Sturgeon - "I sondaggi mostrano che Ed non è abbastanza forte per sbarazzarsi dei conservatori ma io lavorerò con loro in modo che possiamo farlo insieme. Voglio sostituire i conservatori con qualcosa di meglio, qualcosa di più progressista, perché il Paese ne ha disperatamente bisogno. Questa è la mia offerta a Ed Miliband, se è pronto a essere migliore dei conservatori allora sono pronta a lavorare con lui per permettergli di sostituirli” – il leader laburista aveva opposto un secco no in diretta tv, adducendo “disaccordi fondamentali” tra le due formazioni politiche a partire dal fatto che l’Snp non ha escluso un secondo referendum per l’indipendenza della Scozia nei prossimi 5 anni e richieste sul rilancio dello stato sociale e della spesa pubblica che i laburisti ritengono inaccettabili.

Fatto sta che tutti i sondaggi predicono che dopo le elezioni dalle Lowlands e dalle Highlands su Westminster calerà un’invasione di deputati scozzesi, indipendentisti e moderatamente di sinistra come da quelle parti non se ne erano mai visti, facendo diventare l’SNP la terza forza alla Camera dei Comuni. Secondo le rilevazioni il partito che chiede l’indipendenza della Scozia passerebbe dai 6 deputati attuali ad almeno 40, forse addirittura 50 rappresentanti, prendendosi la maggior parte degli eletti che l’intera Scozia – 59 – manda al parlamento di Londra. Il tutto a svantaggio dei laburisti – i Tories da tempo sono esclusi dalla competizione a nord del Vallo Adriano – che potrebbero letteralmente sparire diventando di fatto un partito inglese e perdendo storiche roccaforti. Niente male per uno Scottish National Party che solo pochi mesi fa era dato per spacciato dopo il flop al referendum e che invece ha visto nel frattempo non solo un exploit delle intenzioni di voto, ma anche una impennata delle iscrizioni al partito e una rivitalizzazione della sua base militante.

Proprio in queste ore Nicola Sturgeon e i suoi hanno reso noto il programma del partito, improntate come sempre ad una difesa del welfare e ad una impronta pacifista contraria alla militarizzazione della Scozia e alla partecipazione del paese alle tante missioni militari in cui Londra abitualmente si infila. Tra i punti prioritari di questa campagna elettorale lo SNP vuole l’aumento della spesa pubblica di mezzo punto l’anno, pretende l’incremento dell’Irpef al 50% per i redditi medio-alti, l’introduzione di una tassa sulle abitazioni e di un’imposta sui bonus dei banchieri, oltre che la realizzazione di 100 mila abitazioni di edilizia popolare. Per reperire fondi da destinare alla spesa pubblica e sociale, spiegano i nazionalisti scozzesi, basta rinunciare ai sottomarini nucleari Trident che Londra ha piazzato in Scozia. Un altro dei punti – la rinuncia al programma nucleare militare – che fa inorridire i leader laburisti ma non gli elettori stanchi di votare un partito fotocopia dei Tories.

Nei sondaggi, a parte l’ascesa dei nazionalisti scozzesi, dell’Ukip e dei verdi, si nota per ora un sostanziale bilanciamento tra conservatori e laburisti. Vedremo il sette maggio chi la spunterà e soprattutto se veramente Miliband rifiuterà un accordo con la Sturgeon (magari un appoggio esterno) per la formazione di un governo che, in cambio, dovrebbe però allentare la morsa inglese sulla Scozia.

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