Il timore di un’escalation nei distretti di Kebili e Tataouine è
ormai concreto: dopo l’uccisione accidentale di un manifestante di 23
anni – Mustafa Sekrafi – nel sud della Tunisia, ieri la guardia
nazionale ha indicato nei social media i responsabili delle proteste per
il lavoro: “Questo incitamento nei social media chiama alla
disobbedienza civile e anche ad un colpo di Stato”, ha detto il
portavoce Khalifa Chibani a Radio Mosaique, per poi elencare i danni provocati dai manifestanti:
19 agenti feriti, nove auto della polizia e un camion della protezione
civile bruciati, cinque auto rubate e due sedi della guardia nazionale
date alle fiamma a Tataouine.
Da oltre un mese manifestanti, per lo più giovani e
disoccupati, sono in sit-in permanente fuori dall’impianto di al Kamour,
bloccando le strade con barricate e incendiando copertoni, per chiedere
la redistribuzione delle entrate energetiche e nuovi posti di lavoro
nel settore. Lunedì, il giorno della morte di Sekrafi, era
stato indetto lo sciopero generale nella zona di Al Kamur: tutte le
istituzioni pubbliche e private sono state chiuse, eccezion fatta per i
forni, gli ospedali e le scuole – gli studenti si stanno preparando agli
esami di fine anno.
A monte una difficile situazione economica che non è mai stata affrontata strutturalmente dopo la rivoluzione del 2011: la disoccupazione è ancora alta, al 15,5%, ed esplode tra i giovani e nelle zone periferiche del sud, dove tocca il 40%.
Il 10 maggio il presidente tunisino Essebsi ha dispiegato le truppe a
protezione delle compagnie energetiche e delle infrastrutture di gas e
greggio. Una decisione definita “grave ma che andava presa” e appoggiata
anche dal sindacato Ugtt dopo lo stop deciso dal Ministero dell’Energia
dei giacimenti di Baguel e Tarfa, entrambi di proprietà della società
anglo-francese Perenco. Fermo dal 28 febbraio il giacimento Chouech
Essaida, della canadese Serinus Energy.
Le parole di ieri del portavoce della guardia nazionale
paiono più dirette ad infiammare la rabbia dei manifestanti che a
placare gli animi: non si portano soluzioni alla crisi economica ma solo
minacce di sgomberi. E la rabbia è già esplosa dopo
l’uccisione del giovane manifestante lunedì, schiacciato da un veicolo
della polizia, per errore. Di nuovo lunedì e ieri la guardia nazionale
ha cercato di disperdere i manifestanti con i gas lacrimogeni, ferendo
50 persone e 20 poliziotti. Da cui l’appello degli ospedali della zona
che chiedono di avere più ambulanze e ossigeno per soccorrere i feriti.
E se non sembrano esserci soluzioni politiche alla crisi sociale, si fa strada la narrativa “terroristica”.
Con Essebsi che, durante il vertice saudita con Trump, ha parlato
dell’impegno di Tunisi contro i “flagelli transfrontalieri” del terrore,
nei giorni scorsi sui media tunisini e nelle parole del governo
compare la tesi dell’inflitrazione di jihadisti libici. Sarebbero loro
(Fajr Libya, al Qaeda o Isis, non meglio identificati), cioè, a
accendere la protesta per generare il caos insieme a contrabbandieri e
impossessarsi dei giacimenti petroliferi. Forse per questo è
stato deciso ieri di chiudere il confine di terra con l’Algeria dove si
registrano le prime manifestazioni di giovani algerini a sostegno dei
tunisini.
Nessun accenno alla disoccupazione e alla crescita che interessa solo
le grandi compagnie ma non la popolazione. Eppure è la legge a
prevedere l’assunzione di forza lavoro locale da parte delle società
straniere, modo per redistribuire la ricchezza energetica del sud del
paese, 44mila barili di petrolio al giorno, sicuramente un dato molto
più basso di quello dei giganti vicini, Libia e Algeria. Il timore del
governo, insomma, è che il gioco non valga la candela: poca produzione e
pure le proteste.
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