di Stefano Mauro
“Isis, Al Qaeda,
Hezbollah, Hamas e tanti altri non vanno conteggiati solo nel numero di
morti, ma anche in generazioni di sogni distrutti. [...] Dal Libano
all’Iraq allo Yemen, l’Iran finanzia armi e addestra terroristi,
miliziani e altri gruppi estremisti che portano distruzione e caos nella
regione”. Con questo discorso il presidente americano Trump ha concluso
il summit di Riyadh, insieme ad una serie di accordi miliardari per la
fornitura di armi ai sauditi.
Parole che, dopo l’ennesimo terribile e sanguinoso attentato di
Manchester, rivendicato dall’ISIS, stonano con quello che sta avvenendo
in Europa. Paradossalmente, infatti, la priorità per l’amministrazione americana sembra essere quella di contrastare l’ascesa dell’Iran – con tutti i suoi alleati (siriani, Hezbollah) – nell’area mediorientale, più che di concentrare tutti gli sforzi per combattere lo Stato Islamico in Siria, in Iraq, in Libia (paese dal quale proveniva l’attentatore di Manchester) o nello Yemen.
Erroneamente tutte le maggiori potenze europee sembrano seguire le
direttive americane più che tentare di contrastare anch’esse un
“fenomeno” che sta assumendo dimensioni sempre più preoccupanti: il
rientro nei paesi d’origine e la lotta ai foreign fighters.
Una visione, quella di Trump, considerata dannosa e altrettanto pericolosa
perché non intende risolvere nei fatti e nelle azioni il problema
rappresentato dai movimenti jihadisti, considerati come il “male minore”
in confronto all’ascesa della Repubblica iraniana in tutta la regione.
Secondo diversi analisti solo l’intervento di Hezbollah, nel 2013, e
della Russia, in seguito, ha portato alla sconfitta, fino alla perdita
del 40% del suo territorio, di Daesh in Siria. Come del resto la creazione dell’Hashed Shaabi (Unità Mobilitazione Popolare, PMU, forze irachene interconfessionali curde, sunnite, sciite e cristiane) ed
il sostegno logistico dell’Iran hanno portato al crollo dei territori
di Al Baghdadi in Iraq fino all’imminente caduta di Mosul. La
famigerata coalizione delle forze occidentali, a guida USA, infatti, in
oltre tre anni non ha minimamente scalfito o impensierito le forze
jihadiste sul campo sia per incapacità che, forse, per un preciso scopo.
Solo la successiva creazione delle FDS (Forze Democratiche Siriane), a
maggioranza curda, ha recentemente prodotto alcuni risultati
significativi nella lotta all’ISIS.
Il summit di Ryadh ha messo in mostra il disagio da parte della monarchia saudita per le proprie sconfitte politiche e militari.
La progressiva scomparsa di tutti i gruppi jihadisti pro-Riyadh in
Siria, le sconfitte militari ed il continuo massacro di civili in Yemen e
l’elezione di Aoun, candidato di Hezbollah in Libano, sono la conferma
di tutte le difficoltà da parte della monarchia saudita. L’Iran, invece,
grazie all’accordo sul nucleare, ha avuto nuovi margini di manovra ed
ha visto aumentare la propria influenza in tutta l’area con il suo
intervento, diretto o indiretto, sia nell’arena siriana sia in quella
irachena.
Concentrare gli sforzi contro Hezbollah e Hamas sembra, secondo molti analisti, paradossale.
Abdel Bari Atwan, direttore ed editorialista del quotidiano Ray al
Youm, ha etichettato la scelta di convocare tutti i rappresentanti dei
paesi del Golfo a Washington per definire la strategia contro Iran ed
Hezbollah come “un’assurdità”. “Pensare di voler attaccare l’unico
movimento che, da oltre tre anni, sta realmente combattendo contro Daesh
in Siria e Iraq” – ha aggiunto – “è veramente paradossale”. Giudizi
simili sono arrivati anche nei confronti di Hamas che, in misura minore,
è impegnato a combattere la galassia jihadista, pro-Daesh o pro-Al
Qa’ida, all’interno della striscia di Gaza o dei campi profughi
palestinesi in Libano. Solo un mese fa, ad esempio, le forze congiunte
di tutte le formazioni politiche palestinesi (Fatah e Hamas per prime)
hanno combattuto per cacciare una fazione jihadista legata ad al Qa’ida
(Gruppo Bilal Badr) dal campo profughi di Ain Al Hilweh.
La risposta alle dichiarazioni di Trump è arrivata dal numero due del movimento sciita libanese, Naim Qassim.
In un’intervista rilasciata all’emittente Al Manar il vice segretario
di Hezbollah ha commentato che “Il summit di Riyadh rappresenta tutte le
frustrazioni da parte dei paesi del Golfo per le proprie sconfitte, visto
che gli USA hanno firmato con i loro alleati contratti di armamenti per
diversi miliardi di dollari pur di tentare di contrastare l’ascesa
iraniana nella regione”. Qassim ha concluso la sua intervista facendo un
parallelismo tra il summit di Sharm el Sheikh nel 2006, che portò
all’invasione del Libano, ed al recente incontro di Riyadh con il
rischio di un nuovo conflitto contro Hezbollah.
A livello ufficiale Iran, Russia, Siria e Iraq hanno risposto
alle provocazioni di Trump, durante un incontro ufficiale tra i diversi
segretari della Sicurezza a Zavidovo, vicino Mosca. I quattro
responsabili hanno condannato “le dichiarazioni irritanti e poco
costruttive” di Riyadh, con minacce utili solo a “destabilizzare
ulteriormente la regione”. I partecipanti hanno, invece, riconfermato il
ruolo fondamentale del Centro Unico di Coordinamento, a Baghdad, che ha
portato alle vittorie di Fallujah, di Aleppo e di Mosul. Successi
ottenuti grazie “all’alto livello di collaborazione, fondamentale per
contrastare lo jihadismo e la minaccia terrorista in Medio Oriente e nel
mondo”.
Significativa la frase di Qassim circa le priorità americane:
“Gli USA e l’Europa dovrebbero comprendere, nella lotta al terrorismo,
chi sono i veri terroristi”.
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