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29/05/2017

Trump e l’eterna palude afghana

Un tentativo di sblocco della situazione, seppure tutto ipotetico e denso d’incognite, coinvolge la politica estera statunitense e riguarderebbe un intervento presso l’insidioso alleato pakistano. Nell’area in questione Islamabad gioca una partita simile a quella destabilizzante compiuta dalla monarchia di Ryiad, offrendo un supporto nient’affatto occulto al jihadismo locale. In realtà qualche differenza fra i due comportamenti esiste. Finora i sauditi non hanno mostrato azioni repressive verso i miliziani dell’Isis (ad accezione della coalizione di facciata lanciata tempo addietro), mentre l’esercito pakistano in certe fasi lancia retate e pesanti azioni di controguerriglia verso quei combattenti autori di attentati contro militari e civili (si ricordano casi della scuola di Peshawar e del parco giochi di Lahore). Trump dovrebbe chiedere al premier Sharif di cessare il doppiogioco oltre confine, ma i pakistani sono assieme agli iraniani interessati all’indebolimento di qualsivoglia conduzione autodeterminata di Kabul sul fronte politico, economico, militare, ideologico.

Si tratta di strade già percorse negli anni Ottanta, all’epoca del generale Zia-ul-Haq, accettato dagli Usa con tutta la carica di islamizzazione nazionale che si portò dietro. Oltre alle enormi concessioni di Casa Bianca e Pentagono, che hanno riempito di aiuti economici e testate nucleari una nazione fra le più prolifiche al mondo (il Pakistan conta attualmente 200 milioni di abitanti, con un incremento vertiginoso negli ultimi 25 anni, visto che nel 1947, alla nascita della nazione, la popolazione ammontava a 32 milioni), la politica statunitense non si è preoccupata affatto delle trame di Islamabad, invogliando e istruendo gli agenti della locale Intelligence (Isi) tramite mezzi e uomini della Cia. Del resto vari analisti sostengono che uscire da un simile tracciato, che oggettivamente si è complicato nel tempo, diventa assai rischioso per gli equilibri geopolitici: tagliare supporti agli organismi locali della forza potrebbe far precipitare situazioni già precarie. E la posizione finora mantenuta Oltreoceano è quella di puntellare tale precarietà. I governanti di Kabul, tenuti totalmente in vita dagli Usa, devono accettare questa linea.

Non a caso, i passi compiuti con l’accantonamento di Karzai e la scelta del più malleabile Ghani (uomo allevato presso la Banca Mondiale) ha prodotto finora la quadratura d’un cerchio che, certo, necessita di continue risistemazioni. Uno dei fattori che ha incrinato il disegno della strategia dell’uscita è l’inaffidabilità delle strutture militari. Nell’Afghan National Security Forces i comandi e gli ufficiali si comportano come i signori della guerra sul piano corruttivo e di affarismo personale, senza mostrare però audacia ed efficienza militare. I disgraziati che vestono la divisa provengono dai ceti più derelitti: sono coloro che non riescono neppure a raggranellare piccole somme per tentare l’avventura migratoria verso l’ignoto. E taciamo della possibilità d’infiltrazione che maglie così lasse hanno prodotto in questi anni. L’esercito afghano è il flop maggiore che la linea di ‘messa in sicurezza del territorio occupato’ ha prodotto negli ultimi cinque anni.

L’abbiamo evidenziato: l’ingordigia dei signori della guerra produce da molto tempo comportamenti corruttivi e finanche capi talebani mostrano tendenze a lucrare sul caos (i proventi del commercio di oppio ed eroina continuano a risultare vantaggiosissimi), però il morale fra le milizie talib è superiore ad altri contendenti e questo li rende vivi e competitivi. Non al punto di riprendere il potere, ma di essere attori finora non cancellabili. Allora la mossa di Trump su questo scacchiere strategico può prevedere: l’opzione del riarmo anche consistente; quella di tenere le stesse truppe; infine addirittura diminuirle. Nicholson propende per la prima, già attuata anni addietro e pure fallita. Come fallì il successivo negoziato avviato nel 2009. Com’è facile costatare, sotto il sole afghano non c’è nulla di nuovo. Si guarda una situazione finita in un punto morto, si vorrebbe rompere lo stallo, ma l’unica prospettiva presa in esame è quella del disturbo dell’altro contendente per impedirgli di vincere. Così il conflitto, lungo 38 anni con fasi aperte o latenti, ma sempre corrosive per vite umane e futuro, resta la cappa che soffoca l’aria afghana.

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