Cosa c’entra la questione vaccini con la crisi dell’Alitalia? Niente. O forse molto. Dipende dalla capacità di leggere nessi forse nemmeno tanto nascosti.
Da ormai due anni è in atto una forsennata campagna di allarmismo
terroristico nei confronti dell’opinione pubblica basata sulla necessità
di incrementare le vaccinazioni di massa, giudicate in leggera
flessione statistica.
Non questo o quel vaccino in particolare: ma tutti, sempre, per
qualunque problema. Si è partiti con articoli e interviste allarmanti
sulle epidemie prossime venture (inesistenti picchi di meningite e
pandemie di morbillo), si è continuato con lettere intimidatorie delle
ASL a casa dei genitori riluttanti, si arriva al capitolo finale, con
una legge in incubazione che vieterà l’ingresso a scuola ai non
vaccinati e, quindi, obbligherà di fatto, l’intera popolazione giovanile
ad adempiere al diktat.
Ok, ma l’Alitalia? Ci arriviamo.
Il fatto che molte famiglie abbiano scelto in questi anni di non
vaccinare i figli e si ostinino a difendere la loro scelta, nonostante
il dispiegamento di questa feroce campagna (senza precedenti), è solo
un’altra manifestazione di quella diffusa “sfiducia nelle élite”, che è
un dato costante e caratteristico di questa epoca.
Una volta, il camice bianco, lo scienziato, il “dottore” (figura archetipale della Conoscenza
oscura e salvifica), con il solo carisma della funzione e del titolo di
studio, esercitavano un’indiscussa egemonia sul popolino, che ne
riconosceva acriticamente l’autorità specialistica. Idem per le altre
figure preposte alla direzione della società: il
politico-amministratore, il banchiere, il dirigente di polizia, il
giudice.
Mettere in discussione ruoli e competenze delle élite era possibile
solo per ristrettissime minoranze critiche, perché la stragrande
maggioranza della popolazione non aveva gli strumenti culturali per
dissentire dai “gruppi dirigenti”, dai loro linguaggi specialistici,
dalle loro ingiunzioni spesso inspiegabili. Chi stava “in basso” era più
o meno rassegnato a delegare ai piani superiori la gestione delle
grandi questioni che oggi collochiamo nella dimensione etica e
bio-politica.
Oggi non è più così. Una larga fetta di popolazione, generalmente i
settori un po’ più dinamici e informati, nutre un sospetto e uno
scetticismo critico “a priori” sulle competenze e sui moventi di ogni
gruppo dirigente. È un fenomeno trasversale e secondo alcuni questa
sorda e ostile sfiducia di massa, che corre lungo l’asse verticale “
basso-alto” della società , è l’essenza di quello che viene definito
“populismo”.
Una recente inchiesta statistica lamenta il fatto che molti genitori
sono andati in questi anni a cercarsi sul web informazioni sui vaccini,
finendo vittime di quelle che, i curatori delle inchieste, definiscono
costernati come le “solite bufale”. Senza entrare nel merito di una
faccenda medico scientifica assai complessa, pare un atteggiamento
saggio quello di muoversi autonomamente e acquisire informazioni. Perché
si dovrebbero delegare acriticamente la salute propria o dei figli ad
un medico di base o, peggio, alle burocrazie sanitarie? Perché ci si
dovrebbe rassegnare all’idea che sia il presidente della Regione – non
di rado mediocrissimo funzionario di partito – a decidere le
delicatissime strategie di salute pubblica? Non è forse più saggio
esercitare un giudizio critico “a priori” rispetto all’affidarsi (sempre
“a priori”) a quella classe medica che ogni tanto – in autorevoli suoi
segmenti – viene investita da inchieste giudiziarie (non bufale, ma atti
delle Procure) mentre esercita sperimentazioni di massa sui pazienti
del Servizio Sanitario pubblico per conto di Big Pharma? È a costoro che si dovrebbe consegnare integralmente il delicato tema politico della salute?
Tra l’altro l’impressione è che spesso i medici, massa proletarizzata
di lavoratori della sanità pubblica, non facciano che ribadire i
contenuti delle circolari ministeriali che gli arrivano sulla scrivania.
Non hanno le competenze proprie dell’immunologo o dell’epidemiologo,
non adottano nemmeno il protocollo minimo richiesto da qualsiasi
somministrazione medica: conoscenza preventiva della storia del paziente
e osservazione successiva e prolungata nel tempo degli effetti del
farmaco somministrato (tutte pratiche incompatibili con il “vaccinificio
industriale”).
È in tale quadro che il cittadino cerca autonomamente informazioni
dove e come può, essendo sostanzialmente vietato da un clima isterico
(decisamente antiscientifico) ogni serio e rigoroso dibattito pubblico
in materia. E qui si apre l’altro grande nodo di questi tempi: l’uso del
web e la questione di chi gestisce l’infosfera ingovernabile della
“pubblica opinione”, che tanto inquieta le élite globali.
Esisteva un tempo una verità ufficiale capace di imporsi nel discorso
pubblico, a cui tutti gli operatori del settore umilmente concorrevano.
Tale monopolio del discorso pubblico (di cosa si parla e come se ne
parla) pare ormai decisamente incrinato. Si mettano l’anima in pace
scienziati, politicanti e giornalisti. I buoi sono usciti e sempre meno
gente aderirà ciecamente al pastone mainstream che viene propinato ogni sera nei telegiornali o nei compunti editoriali antipopulisti.
E l’Alitalia? Cosa ha a che fare l’Alitalia con la questione vaccini?
Il nesso tra i due contesti – vaccini e vertenze – va cercato sul medesimo terreno minato, quello del consenso e della fiducia nei “dirigenti-specialisti”.
Nell’ultimo referendum in cui i lavoratori del gruppo hanno votato in
massa contro l’ipotesi di accordo, in ballo c’era proprio un
“pacchetto” di misure confezionato ad arte da tutti i “professionisti”
della gestione delle crisi, convocati attorno a un tavolo in cui, come
in una sceneggiatura, tutti i ruoli erano noti e definiti: gli
amministratori del gruppo, gli investitori internazionali, i consulenti
delle banche creditrici, i saggi politici intervenuti con sollecitudine
per la salvezza della ex compagnia di bandiera, i sindacalisti buoni e
responsabili.
Oltre alla supposta autorevolezza di queste figure, incombeva anche
qui il clima terroristico che era alimentato abilmente dai mezzi di
comunicazione: “O votate SÌ o domattina siete disoccupati”. Un ben curioso esercizio di dialettica democratica.
Si è detto ai dipendenti di Alitalia: “Ci dispiace, ragazzi;
dobbiamo sforbiciare salari, tutele e occupazione, ma che volete mai,
dovete conservare pazienza e fiducia, gli specialisti siamo noi,
vorreste forse rivendicare il diritto alla gestione di una compagnia
aerea? Dateci il vostro consenso, perché è attraverso quello che vi
salveremo”.
Il no di massa dei lavoratori è stato definitivo e fulminante: un’epidemia di dissenso.
Qual è il segno politico di tale pronunciamento? Uno solo: “Non ci fidiamo più. Vogliamo vedere il gioco. Non ci fate più paura. Vediamo di cosa siete capaci”.
Una sfida lanciata dal basso che ha sparigliato i soliti vecchi giochi,
generando un panico confuso tra consiglieri di amministrazione,
sottogoverno, sindacalismo di stato, editorialisti: una manica di
cialtroni che alla prova dei fatti, sbugiardati e sfiduciati, mostrano
tutta la loro pochezza, l’assenza di strategie e di ogni visione che non
sia spolpare, spezzettare e svendere la memoria industriale di questo
paese.
Torniamo ai vaccini. Se dovesse passare una legge sulle vaccinazioni
coatte, che succederà di fronte a migliaia di genitori che
rivendicheranno il diritto di decidere, comunque, della salute dei
propri figli? Che succederà se sfideranno le autorità scolastiche,
portando i loro ragazzi a scuola per adempiere a quello che, almeno fino
ad oggi, in Italia, è un obbligo di legge?
Finirà che deciderà il Tar del Lazio. Come è “normale” che sia in un
paese patetico come questo, in cui ai piani alti della società, mentre
si esibisce la protervia modernizzatrice, serpeggia una ottocentesca
paura del “popolo” – sempre evocato, omaggiato, blandito, ma sotto sotto
temuto per le sue imprevedibili reazioni.
Le élite italiane sono oggi così deboli, prive di autorità e di
egemonia, che ormai l’azione di governo si esercita solo attraverso il
comando amministrativo, la decretazione d’urgenza a cui segue, di
solito, l’ammucchiata bi-partisan.
Sul piano sociale, questa debolezza si manifesta in tante vertenze
sindacali o territoriali: tra i Palazzi del potere e le comunità
(critiche o rancorose) spesso c’è solo una sfilza di celerini. Niente
altro in mezzo.
Nessun potere può reggere a lungo su una base di consenso così
fragile: un po’ di truppe in camice bianco (i chierici delle varie
corporazioni di regime), un po’ di truppe in divisa blu, e in mezzo uno
sparuto drappello in giacca e cravatta che twitta moniti e minacce,
isolato e intimorito.
Una nota finale sulla questione delle libertà. Il sistema tardo-liberale fa di questa parola la sua fonte di legittimazione e la sua bandiera: si va in Afghanistan a liberare le donne in burqa, si svende il patrimonio pubblico per liberalizzare l’economia, si ridisegna tutto il quadro dei diritti individuali per allargare la libertà della persona.
Ma se c’è un opzione o un diritto collettivo che cozza con gli
imperativi del mercato (vedi la libertà di scelta terapeutica) la
reazione del sistema è feroce come un missile Hellfire che
piomba su una festa di matrimonio a Kandahar: la retorica pubblica sulle
libertà, viene sostituita dalla riemersione delle vecchie care parole
d’ordine della società disciplinare – proibire, censurare, espellere,
ingabbiare, controllare.
Le retoriche del politicamente corretto, del contrasto al populismo,
delle isterie securitarie, si sostituiscono in un battibaleno alle
ciance sulla libertà e i diritti. Se hai abbastanza soldi puoi farti
fare un figlio con maternità surrogata da una disgraziata in Romania: ma
se il pupo si vaccina o no (ciò che attiene alle grandi scelte di
salute pubblica e business) questo lo decideranno loro.
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