Questa mattina le autorità egiziane hanno annunciato il nuovo bilancio delle vittime a El-Minya: sono 29 i morti nell’attacco contro tre autobus che trasportavano cristiani copti verso il santuario di San Samuele.
Tredici i feriti in ospedale. Secondo quanto raccontato dai
sopravvissuti il commando armato ha affiancato i bus e aperto subito il
fuoco contro quello che aveva a bordo dei bambini. Hanno poi ucciso gli
uomini e rubato i gioielli alle donne, dopo averle colpite alle gambe.
E ora è caccia all’uomo: l’esercito ha eretto decine di checkpoint militari e sta pattugliando il deserto alla ricerca dei responsabili.
E mentre arrivavano condoglianze da tutto il mondo e il grande imam di
al-Azhar cancellava le celebrazioni in occasione dell’inizio del mese
sacro musulmano del Ramadan, ieri è arrivata la reazione del Cairo:
jet da guerra egiziani hanno compiuto sei bombardamenti contro campi di
addestramento di miliziani islamisti vicino Derna, in Libia. A darne l’annuncio è stato lo stesso presidente al-Sisi, in un messaggio tv.
Tra i target colpiti ci sarebbe anche il quartier generale del
Consiglio dei mujahedin di Derna, fazione islamista vicina ad al Qaeda e
rivale del governo ribelle di Tobruk. A riportare le prime reazioni in
Libia è stata al-Jazeera con l’inviato Mahmoud Abdelwahed: a
Derna i civili sono furiosi perché i sei raid avrebbero colpito aree
densamente popolate all’interno della città, danneggiando case e
fattorie.
Già in passato l’aviazione egiziana aveva compiuto incursioni in
Libia – nel febbraio 2015 e nel marzo 2016 – contro postazioni islamiste
e i raid di ieri alzano di nuovo il livello di coinvolgimento del Cairo
nel paese vicino. In prima linea nel negoziato tra il generale
Haftar, capo dell’esercito di Tobruk, e il premier al-Sarrah, primo
ministro del governo di unità di Tripoli, l’Egitto ha unito la sua
influenza a quella della Russia e degli Emirati arabi a favore del primo
nell’obiettivo di farlo entrare nel governo creato dalle Nazioni Unite.
Un ruolo a cui si aggiunge la campagna anti-islamista con cui l’Egitto si è accreditato agli occhi del mondo,
facendosi paladino della lotta al terrorismo. Una
campagna che è stata spesso usata su obiettivi diversi: dopo il brutale
attacco contro due chiese copte il giorno della Domenica delle Palme, Il
Cairo ha esteso lo stato di emergenza a tutto il paese – non più solo
alla Penisola del Sinai – aumentando la presenza di esercito e polizia
nelle grandi città e dandogli nuovi poteri. Le opposizioni
giudicano la misura un modo per incrementare la repressione nei
confronti delle voci critiche più che uno strumento efficace contro
il terrorismo.
A pagarne le spese, tra gli altri, è proprio la minoranza
copta che sta subendo un processo di trasferimento forzato dalle proprie
comunità: la paura di attacchi, le minacce islamiste e le
uccisioni hanno spinto molte famiglie a rifugiarsi nelle città egiziane
per mancanza di sicurezza nei propri villaggi. Così, da sostenitori di
al-Sisi, che videro all’epoca come un baluardo anti-islamista, oggi i
copti sono sempre più critici verso un’autorità che non li sa
proteggere.
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