Qualcuno avrà avuto la sventura di vedere l’ormai datatissimo Indovina chi viene a cena, sovrabbondante
pellicola retorica sul razzismo profondo nella società progressista
americana (nonostante la grande interpretazione di Sidney Poitier, e
nonostante i tempi che in qualche modo potevano giustificare
l’operazione). Questo Scappa – Get Out si presenta, a prima vista, come curioso remake di
un film di cui, tutto sommato, nessuno sentiva più la mancanza. Ma
l’apparenza svanisce (quasi) subito: l’intuizione attorno a cui ruotava
il film di Kramer viene stravolta dando vita ad un racconto
completamente “altro” rispetto alla scontatissima intemerata
antirazzista del film del ’67. La trama si avvia in maniera speculare:
Chris Washington (il protagonista) va a conoscere i genitori della sua
ragazza (Rose). Il problema è che lui è nero e lei è bianca, e la
ragazza non ha avvertito i genitori della “diversità”. Ai dubbi di lui
fa da contraltare la sicurezza di lei, convinta dei propositi
progressisti e antirazzisti dei propri genitori. L’intuizione, tanto di
Kramer quanto di Peele, è che certi propositi antirazzisti della società
democratica americana valgono fino a quando “i neri” sono “l’altrove”.
Quando, come in questo caso, il nero entra dentro la vita familiare del
bianco, l’antirazzismo ideale si scontra con la difficoltà, psicologica
e materiale, di accettare veramente, e su di un piano di effettiva
parità, “il diverso”. Qui finiscono le similitudini e prende vita un
film completamente sui generis non solo rispetto all’originale
di Kramer, ma addirittura rispetto al panorama medio del cinema “di
denuncia” statunitense. Sulla vicenda principale si innesta un clima di
ambivalente tensione e attesa in apparenza non giustificato dal racconto
dei fatti. La storia, tutto sommato giocata sul registro grottesco,
viene alterata da un’ambigua cappa di mistero irrisolto. Niente sembra
essere come è veramente, ma i motivi di questa ansia rimangono sullo
sfondo e, per lo spettatore, inspiegabili. Nella famiglia, tutta
rigorosamente bianca, non mancano i domestici, altrettanto rigorosamente
neri, e presentati in una condizione neo-servile in parte mai del tutto
dileguata nella società americana, in parte di ritorno in questo XXI
secolo. Ma questa neo-servitù, oltre che rimarcare le distanze razziali,
appare anche diversa mentalmente dai normali comportamenti dei bianchi,
anche se questa diversità non è esplicitamente descritta. Per di più,
il soggiorno dei fidanzati avviene durante un ricevimento che i genitori
di Rose danno per i loro amici e parenti più stretti. Tutti si
dimostrano comprensivi e perfettamente a loro agio con la presenza di
Chris, ma allo stesso tempo tutti i discorsi finiscono per affrontare o
lambire il colore della sua pelle. La situazione generale di disagio
cresce sia nel protagonista, sia nello spettatore, visto che il doppio
registro alterna momenti comici, altri drammatici, altri ancora
sfruttando un canovaccio thriller a prima vista straniante per come la
storia si svolge effettivamente. La seconda parte del film chiarirà
l’intreccio, sfociando in una sorta di thriller-horror che deve molto ai
film di Romero (ispirazione rivendicata dal regista stesso,
d’altronde). Ma il film non è un horror: scordatevi morti viventi e
creature dell’oltretomba, tutto rimane ancorato alla realtà, sebbene nel
finale la sceneggiatura sembra prendere un po’ troppo forzatamente la
via dell’inspiegabile.
Il tentativo del regista è talmente ardito da risultare temerario:
innestare in una commedia di denuncia (il plot principale), alternanze
drammatiche non preventivate, sommate a una torsione thriller e
addirittura para-horror nel finale. Eppure, piacevole sorpresa, il film
regge alla sperimentazione. Per quasi tutta la durata del film si viene
letteralmente catapultati nella dimensione reale del razzismo democratico. Non è certo il razzismo esplicito della xenofobia rivendicata dell’alt right il problema oggi negli Usa: questi bianchi ferventemente “obamiani” tollerano il
nero ma, allo stesso tempo, tutto il loro atteggiamento recondito volge
a disinnescare qualsiasi piano di parità concreta. Il nero è tollerato
finché reitera il proprio ruolo sociale, vero o presunto che sia. Quando
questo ruolo viene capovolto, l’antirazzismo democratico si
trasforma in sospetto e, all’occorrenza, in esplicito rifiuto, sempre
certo condito da nobili motivazioni, mai “volgare” o “gretto”. La nostra
ansia è l’ansia del nero costantemente esaminato da occhi, discorsi,
comportamenti indiscreti. Il finale del film s’incaricherà di sbrogliare
la matassa in cui lo spettatore è rimasto avviluppato. L’esplicitazione
delle differenti ambiguità non potrà non inceppare l’equilibrato
ingranaggio che reggeva la costruzione emotiva del film. Nonostante ciò,
la pellicola nel suo complesso resiste allo scadimento fumettistico o
splatter che s’intravede nel finale, fermandosi un attimo prima della
rovina, e chiarendo alcuni dati di fondo: il razzismo nella società
americana non è quello (comunque problematico da quelle parti) della
rivendicata xenofobia suprematista, ma quello latente nei rapporti di
potere; a differenza che nel film di Kramer, qui non c’è “lieto fine”:
il razzismo non si converte nel trionfo dei buoni propositi, anzi, le
peggiori perversioni trovano terreno fecondo proprio nell’antirazzismo
borghese “illuminato”; oltretutto – anche qui notevole differenza col
film di Kramer ma anche, a pensarci bene, rispetto a molti film di Spike
Lee – il razzismo non accomuna bianchi e neri (il razzismo dei
neri verso i bianchi, se pure esiste, è d’altro tipo, e non spiega
nulla delle contraddizioni reali della società americana).
Proprio perché l’ansia dei “non-bianchi” è il costante rumore di
fondo delle loro vite, l’esplicitazione finale scardina questa
ambivalenza e scivola nel plateale, perdendo di forza. Ma, come detto, i
pregi superano i difetti, lasciando non solo una denuncia originale
della questione razziale negli Stati Uniti, ma sperimentando una sorta
di crossover stilistico rischioso ma convincente.
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