In
pochi giorni Mario Draghi ha seminato prima speranze e poi terrore, in
proporzioni decisamente sbilanciate a favore del secondo.
Gli
addetti ai lavori non hanno nemmeno fatto in tempo a metabolizzare la
prima notizia (“la crisi è finita”) che subito gli è caduto addosso
l’allarme sulla sostenibilità dei debiti pubblici europei.
Le
due cose sono collegate, anzi inscindibili nella visione – ristretta
dal ruolo e dallo statuto – della Banca Centrale Europea. Finché la
crisi “c’era”, infatti, la Bce doveva e poteva abbassare i tassi di
interesse, scesi fino a zero, dando così fiato agli Stati – tutti – che
devono pagare annualmente cedole ai sottoscrittori dei propri titoli di
debito. Addirittura, riconoscendo la realtà della crisi, la stessa Bce
era arrivata a promuovere un quantitative easing,
comprando sul mercato secondario titoli di Stato per 60 miliardi di
euro ogni mese (prima era arrivata a 80). In questo modo gli Stati –
tutti – avevano praticamente ridotto a ben poca cosa il “servizio sul
debito”, ritrovandosi per le mani risorse da destinare ad altri scopi.
Peccato
che le regole europee vietino di investire quelle risorse se prima non
si provvede alla riduzione del debito... In questo modo – tagliando il
problema con l’accetta – gli Stati in difficoltà si sono visti obbligati
a
tagliare la spesa pubblica, aumentare le tasse, strangolare la dinamica
economica proprio nel momento in cui, al contrario, sarebbero state
necessarie politiche “anticicliche”, ossia compensative.
Un
paradosso per nulla divertente è che in questo modo la produzione di
ricchezza è scesa più di quanto non sarebbe avvenuto senza quelle
politiche “austere”, con il risultato di ridurre anche le entrate
fiscali. Risultato: il debito pubblico di tutti i paesi europei – meno uno – è aumentato invece di scendere.
Cosa
succederà ora, secondo l’allarme lanciato da Draghi? La Bce, il
prossimo anno, riprenderà ad aumentare gradualmente i tassi di
interesse. Dunque ogni anno gli Stati dovranno accantonare una quota
maggiore di entrate per ripagare gli interessi sul debito. Un piccolo
calcolo: con un debito pubblico pari a 2.200 miliardi, che differenza
c’è – solo per fare un esempio – tra un interesse al 2 e uno al 2,5%?
Undici miliardi...
Figuriamoci cosa potrà accadere se l’aumento dei tassi dovesse essere maggiore...
I
problemi non si limitano però a questo. L’aumento dei tassi di
interesse base – quelli decisi dalla Bce – trascinano ovviamente al
rialzo anche quelli praticati dalle singole banche, dunque il costo del
denaro da prestito per imprese e famiglie. Piombo nelle ali per
qualsiasi attività economica che abbia bisogno di liquidità, non proprio un
“aiuto alla crescita”.
In
queste condizioni – ormai prossime – l’unica via per mantenere
“competitività” è la deflazione salariale. Ossia abbassare salari
(chiedete agli “scontrinisti” della Biblioteca Nazionale di Roma, per
avere un’idea), ovviamente le pensioni, la spesa sanitaria, ecc. Sembra
la Grecia? Lo è. Solo che “dovranno” farla anche qui, e in Spagna,
Portogallo, Irlanda, e persino in Francia (Macron è stato inviato
all’Eliseo per questo; e non ci sarebbe mai arrivato se l’avversario al
ballottaggio fosse stato diverso da una Le Pen...).
Certo,
in un sistema di paesi legati da trattati intelligenti, l’alternativa
ci sarebbe. Una politica fiscale comune, con una seria redistribuzione
tra chi finora ha guadagnato un surplus favoloso – in contrasto con i
trattati sottoscritti! – e chi deve essere risollevato dall’abisso. Ma
andateci voi, da Wolfgang Schaeuble e Angela Merkel, a chiedere una cosa
del genere...
Come spiega Marco Onado su IlSole24Ore, l’avvertimento di Draghi è “una
sana doccia gelata a chi si illudeva (più nel mondo della politica che
dell’economia) che la ripresa economica che si va consolidando fosse da
sola capace di portarci fuori dal guado. È vero il contrario“. E per quanto riguarda gli squilibri all’interno dell’Unione Europea, “Come
meravigliarsi se l’intera area dell’euro ha ormai un debito pari al
91,3 per cento del pil, cioè oltre il 50 per cento in più del livello
scritto nel Trattato? È un problema non solo di singoli paesi, ma anche
di coordinamento europeo: mentre gli altri arrancano, la Germania procede in direzione ostinata e contraria (è
scesa dall’81 per cento del 2010 al 67,6 del 2016 ed è prevista
arrivare al 62 nel 2018). A parte che ciò è stato possibile anche grazie
ai bassi tassi di interesse e all’azione della Bce tanto vituperata a
Berlino, questo
dato è la dimostrazione principale delle contraddizioni della politica
fiscale europea, stretta fra paesi ancora deboli che devono stringere i
cordoni della borsa e quello più grande che rinuncia alla possibilità di
trascinare la crescita attraverso una manovra fiscale meno restrittiva”.
E dire che uno come Pier Carlo Padoan sa benissimo quanto siano deformanti i meccanismi decisi anni fa, tanto da dichiarare al Financial Times “L’incubo dell’elettore medio tedesco è perdere i soldi dandoli ai terribili europei del sud. Siamo
seri: la storia ci dice che l’integrazione monetaria richiede qualche
forma di redistribuzione. Altrimenti l’aggiustamento che verrà presto o
tardi sarà molto più dannoso per tutti i Paesi”.
Non
avverrà, lo sappiamo. Il programma di “riforma” dei trattati europei,
annunciato proprio da Schaeuble, prevede l’esatto opposto: una
centralizzazione maggiore delle politiche di bilancio e vincoli ancora
più stretti.
Tradotto: massacro sociale.
E
quindi il governo Gentiloni si è portato avanti col lavoro approvando
il “decreto Minniti”. Se non ci saranno soldi per la mediazione sociale,
non resterà che spendere qualche cosa di più – un miliardo, per la
“riorganizzazione delle carriere” (ossia aumenti salariali) – per le
forze di polizia. Qualcuno dubita ancora che siamo governati dallo
sceriffo di Nottigham?
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