Vostre le guerre, nostri i morti. Ad ogni attentato dell’Isis o di qualche imitatore siamo costretti a ripetere questa semplice verità. Che rischia sempre di essere sommersa sotto il mare della melassa vittimista sparata dagli schermi e dalle prime pagine.
Non c’è alcuna commozione in chi freddamente prepara il menu strappalacrime da sottoporre al malcapitato telespettatore. Non c’è altro che pelosa ipocrisia nelle frasi di circostanza pronunciate da ministri, premier, presidenti. Sanno meglio di noi con cosa hanno a che fare, e sanno di essere tra i primi responsabili della metastasi stragista sparsa in tutto il mondo.
Fuori da ogni complottismo idiota, la galassia jihadista – Isis, Al Qaeda, Al Nusra, ecc – trova radici storiche nel fondamentalismo sunnita, coltivato e perpetuato dall’Arabia Saudita e le altre petromonarchie del Golfo. E’ stato foraggiato e incentivato da tutto l’Occidente, in primo luogo dagli Stati Uniti, come arma fondamentale contro l’Unione Sovietica che aveva sciaguratamente invaso l’Afghanistan. Osama Bin Laden è stato per anni il principe dei freedom fighters acclamati sui media del “mondo libero”, costruendo così un immaginario vincente per una filiera quasi seppellita dalla Storia.
Il jihadismo sunnita è però esploso come fenomeno massivo solo dopo la seconda invasione occidentale dell’Iraq, quella del 2003, che portò all’abbattimento del regime di Saddam Hussein. Un regime autoritario, certo, come tutti quelli della zona (tranne Iran e Libano). Ma soprattutto laico, per nulla affascinato dalle sirene fondamentaliste. Con demente determinazione gli Stati Uniti scelsero come nemici proprio i regimi laici del Medio Oriente, assecondando gli interessi delle dittature (vi piace di più il termine monarchie?) islamicamente “pie”. Dopo Saddam Hussein toccò alla Libia di Mu’ammar Gheddafi, quindi alla Siria di Assad. Tre paesi che sono diventati un braciere dove si consumano tragedie innominabili, verso cui è stato favorito un “turismo” di combattenti dalle metropoli dell’Occidente. Lo stesso era avvenuto nella ex Jugoslavia o in Cecenia. Combattenti che qualche volta tornano a casa furibondi, portandosi dietro un altro mondo, altri interessi, altre ragioni.
Gente che magari si è sentita strumentalizzata e tradita dell’Occidente – prima sostenuti e coccolati, poi bombardati – fermamente intenzionata a portare nelle nostre città l’inferno che “i nostri” governanti e bombardieri (non importa, soprattutto a loro, se siano americani, francesi, inglesi o russi) hanno portato nelle loro.
Spiegava un compagno turco che l’Isis e gli altri gruppi sono come un pitbull: addestrati a mordere gli altri, ma a volte colpiscono anche il padrone o quello che ha presunto di poterlo essere.
L’Isis è un vostro prodotto, una metastasi del tumore che voi “classe dirigente occidentale” avete fatto crescere altrove.
I ragazzi di Manchester sono invece i nostri figli, fratelli, sorelle. Siamo noi che giriamo per le nostre strade, cercando di sopravvivere all’impoverimento crescente che voi ci avete imposto, che ci intruppiamo in uno stadio o in una metropolitana o una via della movida per una serata diversa, per una pausa in una vita senza futuro migliore.
Voi avete iniziato questa guerra che ci uccide. Non ci sono paragoni possibili con la lotta armata metropolitana degli anni ‘70 in Europa o in America Latina, perché in quel caso i bersagli erano i responsabili di scelte precise e avversate; non gente che passava per caso.
Isis ed imitatori, invece, nemmeno vi cercano. Sono troppo deboli per farlo, si accontentano di uccidere noi, a mucchi, senza distinzioni. Sangue di popolo per sangue di popolo, in una logica arcaica e senza futuro.
Voi avete iniziato questa guerra che ci uccide. Non siete voi che potete farla finire. Non siete voi che potete vincerla. Non vi interessa, anzi vi torna persino utile. I popoli spaventati si affidano inermi alla bestia che finge di proteggerli.
Finché voi resterete ai vostri posti noi continueremo a morire, a piangere i nostri ragazzi, a chiederci stupidamente “perché ci odiano?”
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