di Michele Giorgio il Manifesto
«Abbiamo la rara
opportunità di portare stabilità, sicurezza e pace in questa regione e
sconfiggere il terrorismo creando un futuro d’armonia, prosperità e
pace. Ma possiamo farlo solo collaborando, non c’è altra via». Un Trump messianico ha aperto ieri con queste parole la visita ufficiale in Israele, seconda tappa del suo viaggio inaugurale all’estero da presidente degli Stati Uniti. Una tappa che segna la discontinuità con la linea di Barack Obama
– che aveva avuto rapporti non facili con Benyamin Netanyahu al quale
comunque ha assicurato aiuti militari per quasi 40 miliardi – ma che difficilmente imprimerà, come spera la destra israeliana dall’ingresso di Trump alla Casa Bianca, una
svolta netta alla politica Usa nei confronti delle colonie ebraiche,
dello status di Gerusalemme e dei Territori palestinesi occupati.
Netanyahu e i suoi ministri hanno ormai capito che i gesti
simbolici dell’inquilino della Casa Bianca non andranno sempre a
soddisfare le aspettative israeliane. Il fatto che Trump sia
stato ieri il primo presidente americano in veste ufficiale a visitare
il Muro del Pianto, il luogo più sacro dell’ebraismo, nella zona Est,
occupata, di Gerusalemme, difficilmente darà il via libera al
riconoscimento da parte degli Stati Uniti, di tutta la città, quale
capitale di Israele. Nonostante le pressioni israeliane, Trump ha preferito visitare il Muro del Pianto senza essere accompagnato da Netanyahu.
La tv israeliana Channel Two, riferiva ieri che funzionari statunitensi
avrebbero respinto la richiesta di Netanyahu affermando che il Muro del
Pianto «non fa parte del vostro territorio... è in Cisgiordania, questa è
una visita privata del presidente e non è affar vostro». Un portavoce
della Casa Bianca ha poi precisato che questi commenti «non riflettono
la posizione statunitense e certamente non quella del presidente». Può
darsi, in ogni caso il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel
Aviv a Gerusalemme (per ora) è congelato, con grande disappunto del
governo Netanyahu e della destra al potere.
È evidente che i rapporti avviati dalla nuova Amministrazione con il mondo arabo – in particolare l’Arabia Saudita al quale nei prossimi anni gli Usa venderanno armi per centinaia di milioni di dollari – hanno
indotto persino un presidente che non brilla per intelligenza e
preparazione politica a farsi più cauto e vago sulla questione
israelo-palestinese e a rinunciare ai toni battaglieri e filo-israeliani
della campagna elettorale. Ieri sera mentre chiudevano questo
numero del nostro giornale Trump e Netanyahu erano impegnati in colloqui
nella residenza del premier israeliano. Al termine non si attendevano
annunci clamorosi. «Vogliamo che Israele viva in pace. Insieme possiamo
arrivare alla pace. Condividiamo una amicizia fondata sull’amore per la
libertà e per i diritti umani», ha detto il presidente americano nel
corso della conferenza stampa congiunta con Netanyahu. «Credo in un
rinnovato sforzo per raggiungere la pace tra israeliani e palestinesi... La pace in Medio Oriente è uno degli accordi più duri da ottenere ma
sento che ci arriveremo. Lo spero», ha aggiunto. Frasi senza spessore che rivelano l’inesistenza di un “piano di pace” di Trump di cui si parla da qualche tempo.
Ciò che il tycoon consegnerà a Israele in questa prima visita
da presidente non è Gerusalemme o il via libera ad una colonizzazione
senza freni dei territori palestinesi. È la testa dell’Iran. Lo
stesso regalo che ha fatto ai sauditi e agli altri regnanti del Golfo
riuniti ad ascoltarlo domenica a Riyadh. Trump ha accusato Tehran e i
suoi alleati (Siria e Hezbollah) di tutto e di più per la gioia di re
Salman dell’Arabia Saudita. Parole che sono suonate come una
dichiarazione di guerra e alle quali non ha potuto non reagire il
rieletto presidente iraniano Rohani. «Il ritrovo in Arabia Saudita è
stato soltanto uno show senza valori pratici o politici di alcun tipo.
Non si può risolvere il terrorismo dando soltanto il denaro del popolo a
una superpotenza», ha commentato ieri Rohani alludendo agli accordi da
miliardi di dollari firmati da Washignton e Riyadh.
Oggi Trump andrà per qualche ora a Betlemme dove incontrerà il presidente dell’Anp Abu Mazen.
I palestinesi lo accoglieranno con una “giornata di rabbia” contro la
politica Usa e l’occupazione israeliana. Tutta la Cisgiordania e
Gerusalemme est ieri hanno osservato una sciopero generale in
solidarietà con i detenuti in sciopero della fame e contro l’arrivo del
presidente americano.
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