Nel ringraziare sinceramente la Rete dei Comunisti per la convocazione di questo incontro, vorrei cominciare questo intervento partendo dalla fine, cioè dalla proposta finale avanzata dal compagno Mauro Casadio nella sua relazione introduttiva: vista la mole di questioni che il dibattito di oggi con Fattore K ha sollevato è opportuno non solo riaggiornarci entro l’anno, ma fare in modo che la nostra discussione e il nostro confronto si alimentino anche grazie ad altri appuntamenti.
Vorrei in premessa sottolineare un fatto: spesso si tende a criticare questa modalità di discussione, ritenuta accademica o autoreferenziale, evidenziando in qualche modo e con vari argomenti il distacco della discussione politica generale, teorica e d’analisi dalla prassi politica, dalla lotta di classe. Bene, ho la profonda convinzione che in questa sede non si corra questo rischio: i compagni qui presenti sono in larga parte quelli con cui siamo scesi in piazza in questi mesi per il No sociale al referendum costituzionale, contro l’UE e tutti i suoi vincoli, contro la Nato e l’escalation che sospinge sul piano inclinato della terza guerra mondiale. Non è poco, e questa sintonia probabilmente agevola, nello spirito sicuramente, la nostra interlocuzione.
E’ assai significativo il titolo che è stato dato a questa conferenza, “I comunisti, il blocco sociale ed i populismi”. Interrogarsi sul nesso tra le difficoltà del movimento comunista, nel quadro della crisi sistemica del capitalismo, e l’ascesa dei cosiddetti movimenti “populisti” è una necessità dettata dalla realtà attuale. Muovendo solo per cenni, vorrei partire dal rimarcare che è bene tenere presente un quadro storico ampio per la nostra riflessione, a partire dal peso che la sconfitta dell’“esperimento profano” dell’Unione Sovietica rappresenta ancora oggi per le organizzazioni comuniste: quella sconfitta deve necessariamente essere indagata e oggetto di discussione – soprattutto nel Centenario dell’Ottobre – poiché le nostre organizzazioni sono ancora lambite dalle scosse che il terremoto rappresentato dalla fine della prima esperienza del socialismo realizzato ha provocato. Un’analisi che deve essere condotta dal rigore degli strumenti scientifici del marxismo, scevro da ogni liquidazionismo o idolatria. Del resto, l’importanza storica sul piano – prima di tutto – internazionale dell’Unione Sovietica, di certo, non sfugge e parimenti questa consapevolezza non è solo qualificabile come patrimonio di “nostalgici” filosovietici, ma ad esempio essa era propria di un esponente della “destra” interna al PCI come Giorgio Amendola, unico sostenitore dell’intervento dell’URSS negli anni Ottanta in Afghanistan durante i lavori della Direzione Nazionale del Partito Comunista che si teneva in quei giorni. Si tratta quindi di andare a fondo nella analisi delle luci e delle ombre di un’esperienza storica complessa ma che sicuramente ha costituito una sperimentazione di valore storico generale per i comunisti, in un secolo come il Novecento che – come definito dal prof. Domenico Losurdo – si caratterizza come una lunga fase storica di “apprendimento” per i marxisti.
Accanto ad una sottovalutazione del portato della sconfitta dell’esperienza sovietica, vi è stata per molto tempo una rimozione della necessità, diventata sempre più stringente col passare degli anni, di un’analisi di fase che, prendendo le mosse almeno da un periodo a cavallo tra fine anni Settanta e inizi anni Ottanta del secolo scorso, arrivasse fino ad oggi. Un’analisi condotta con gli strumenti del socialismo scientifico, oggetto – proprio dopo la fine dell’URSS – di una damnatio memoriae che non sempre è venuta dall’avversario di classe, ma anche dalle fila comuniste: si pensi ai tentativi dissennati di porre in discussione la categoria dell’imperialismo. Per fortuna o per sfortuna ci pensano sempre i fatti – che, come diceva Lenin, “hanno la testa dura” – per definire la validità o meno degli strumenti dell’analisi ed oggi è semplicemente follia o mistificazione negare l’attualità della categoria dell’imperialismo. Vi è stata una sottovalutazione, diventata rimozione di approfondimento, del processo di competizione internazionale (che oggi conosciamo col termine di “globalizzazione”), il quale ha portato ad una liberalizzazione totale della circolazione dei capitali, ad una messa in discussione dell’intervento dello Stato in economia, a favore di teorie monetariste, liberiste, orientate ad un ruolo “minimo” dello Stato e ai tentativi di scardinamento della democrazia – specialmente in Europa – costruita nel secondo dopoguerra. Tutte caratteristiche che connaturano, tra l’atro, il processo di integrazione europea.
Un attacco particolare è stato rivolto alle condizioni materiali del lavoro, nel tentativo di modellare una competizione capitalistica fondata sulla svalutazione del salario e sulla precarietà. In questa ottica, non ha per nulla un ruolo secondario il vero e proprio smembramento e la frammentazione della classe operaia. Tale processo è emblematicamente rappresentato dal caso italiano: dagli anni Ottanta, si assiste ad un proliferare di Piccole e Medie Imprese (PMI), a discapito della grande industria e della manifattura – con tutto ciò che esso comporta in termini di produttività internazionale e sovranità del Paese – è l’inizio di un processo profondo di smembramento del lavoro salariato. E’, questa, anche la forma economica determinata con cui l’Italia punta a giocare un ruolo nei mercati internazionale, affidando alle PMI un ruolo centrale nelle esportazioni (essendo l’Italia un Paese che ha bisogno di importazioni a causa della indisponibilità di materie prime proprie). Oggi, in Italia, le PMI rappresentano il 98, 3% delle imprese. Sono parte di dati contenuti nel Rapporto del CESTES, “Dalla catena di montaggio alla catena del valore”, un rapporto che usciva quasi contemporaneamente all’analisi ISTAT. Quest’ultimo oltre a certificare l’immiserimento di massa ottenuto attraverso le politiche liberiste della UE, provava – in modo interessato – a sostenere la tesi della scomparsa della coscienza di classe per affermare la scomparsa stessa della classe operaia. Tesi mascherate di sociologia, ma pienamente funzionali all’ideologia dominante. Basterebbe citare i dati del rapporto del CESTES (come quelli dell’Istat) per smascherare un’operazione ideologica. Tuttavia, non si può rimuovere una costatazione reale: la scomparsa della coscienza di classe non è cosa distinta dalla proliferazione delle PMI e dallo smembramento della classe lavoratrice: è, evidentemente, più complesso sviluppare un antagonismo di classe tra lavoratori salariati e padroni in micro sistemi produttivi composti da una decina di lavoratori o poco più. Assai più semplice è l’instaurarsi di una sorta di comunione di destini tra padroni e lavoratori, attraverso la totale rimozione dell’antagonismo di classe.
Analizzare questo sostrato non solo è utile per i comunisti, per interrogarsi sulla questione della coscienza di classe, ma aiuta anche a comprendere come sia stato possibile per i “populismi” attecchire così rapidamente in larghe fasce di popolo. Attraverso parole d’ordine interclassiste (mai volte a portare consapevolezza in un ceto medio proletarizzato), rivolte in conflitto frontale con “l’establishment”, contro l’ordine costituito, i populismi hanno attecchito facilmente in un blocco sociale articolato e frammentato, privo di coscienza.
Ma cosa intendere per “populismi”? A mia opinione si può concordare con quanto sostenuto recentemente da Luciano Canfora, il quale ha qualificato questo termine come un’etichetta negativa appiccicata dall’establishment per qualificare in senso deteriore i movimenti ad esso antagonisti nei diversi Paesi. In effetti è da respingere l’uso onnicomprensivo del termine “populismo”: ciascuno dei movimenti così definiti ha, in verità, precise caratteristiche nazionali e particolari ragioni di successo politico. Per quanto riguarda il caso italiano, se è vero che per i comunisti è necessario riprendere un lavoro di analisi ed elaborazione all’altezza del tempo, possiamo dire che non partiamo da zero: già Antonio Gramsci, nei Quaderni, prendeva in esame il ricorso, da parte delle classi dirigenti specialmente nelle fasi di crisi e transizione, di movimenti politici camaleontici, cultori del dinamismo, della modernità, della lotta contro la corruzione, antipartito. Quei movimenti che Togliatti definì come “partiti degli antipartito”. Pare una descrizione certosina del Movimento 5 Stelle, un movimento che ha costruito il suo successo specialmente negli anni del governo Monti, riuscendo ad ottenere un consenso di massa sulle parole d’ordine della lotta alla corruzione politica, contro la casta e sull’onda del malcontento di popolo per le politiche socialmente insopportabili di quel governo. Oggi quel movimento rivela le sue ambiguità essenziali e appare molto lontano dal risolverle in senso positivo.
L’analisi di fase non può inoltre non tenere conto, sul piano internazionale, di un altro fattore decisivo: l’ascesa economica e politica del BRICS richiede necessariamente un supplemento d’analisi, indagare il ruolo internazionale di questi Paesi e i tratti di affinità tra loro può essere utile a tal fine. Autonomia dall’imperialismo Usa-Nato e rilevante intervento dello Stato in economia (per entrambi questi fattori, si può facilmente rilevare una differente intensità a seconda di ciascun paese BRICS singolarmente considerato) sono caratteristiche che meritano e necessitano di un approfondimento adeguato. Del resto, sono i nostri stessi avversari a suggerircelo: ricordiamo tutti la copertina del 2012 di “The Economist” raffigurante il busto di Lenin e, proprio a commento dell’ascesa di questi Paesi emergenti, il giornale capitalista titolava: “il ritorno del capitalismo di Stato”. Tutt’altro che in errore, i giornalisti della rivista economica britannica richiamavano un concetto chiave della teoria di Lenin e, cioè, quello della fase del capitalismo di Stato come immediatamente antecedente all’instaurazione di un modello di società socialista. E’, quindi, per noi quasi obbligatorio approfondire meglio il ruolo di questi Paesi, tenendo conto di una situazione fluida e articolata (emblematici i fatti accaduti in Brasile e l’ambiguità dell’India nel contesto internazionale) e sviluppare una riflessione particolare sulla Cina.
Per quanto riguarda la forma Partito, mi limito a dire che senza un pensiero forte, una cultura politica affine, un’analisi di fase chiara non c’è il partito comunista, ed è probabilmente questo il limite principale dell’esperienza della rifondazione comunista post 1991. Oggi siamo obbligati dai fatti ad aspirare a un forma partito di quadri con vocazione di massa, ma accanto agli elementi oggettivi che impongono una scelta sulla costruzione del partito comunista, vi sono anche elementi soggettivi, vi è una scelta politica di fondo, basti pensare a quella che fu la dialettica/scontro tra l’impostazione dell’organizzazione del PCI in Pietro Secchia e in Giorgio Amendola per averne riprova. Anche su questo tema, dunque, sarà necessario un approfondimento.
Questa brevi considerazioni vogliono essere uno spunto di riflessione comune, non hanno pretesa esaustiva, anzi, a causa dei tempi ristretti per gli interventi sono necessariamente incomplete. Proprio la mole di questioni poste all’ordine del giorno nel nostro dibattito ci induce a riaggiornarci presto e a sviluppare più a fondo un confronto sulle questioni centrali per la ricostruzione comunista nel nostro Paese.
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