Da giorni nell’area napoletana è in corso una nuova mattanza criminale. Omicidi e ferimenti si susseguono in ogni punto del territorio dell’area metropolitana con una sequenza rapsodica che ricorda i famigerati anni ’80, caratterizzati dalle grandi guerre di camorra.
Se si scorre la cronaca, però, colpisce che tra i morti di questi ultimi giorni ci sia un colletto bianco, un vero manager del sistema: Salvatore Caputo, 72 anni, ucciso in un agguato ad Afragola.
L’uomo, mai indagato seriamente – godeva anzi di una sentenza di assoluzione – era un imprenditore molto noto, con legami e relazioni ad ampio raggio. Si pregiava di acclarate aperture di credito in campo finanziario e bancario ed aveva interessi nell’edilizia e nell’agricoltura. Negli anni ’80/’90 aveva avuto un trascorso nella politica come assessore nell’allora Psdi (prima che questa formazione politica finisse travolta da Tangentopoli e dai processi politici che configurarono la fine della cosiddetta Prima Repubblica), poi formalmente più nulla sul versante della “politica”.
L’eco della sua esecuzione mortale è stato forte nella zona di Afragola/Cardito/Acerra dove permangono, tutt’ora, le radici e i centri di comando di alcuni clan storici della Camorra, ma è, comunque, riverberato nelle cronache giudiziarie dell’intera regione. Del resto, a parere della Direzione Distrettuale Antimafia alcuni pentiti indicavano in Caputo uno dei “sei senatori” che compongono la cupola che dirige il potente clan Moccia; un clan mai seriamente intaccato dalle inchieste penali e mai privato della sua notevole disponibilità di denaro che lo contraddistingue dalle altre “paranze”.
Abbiamo citato questo episodio, per i lettori Contropiano, perché – da quello che sta emergendo dalle prime indagini e da come la “vox populi” racconta – Salvatore Caputo era il terminale, il vero punto di connessione, di un collaudato intreccio di interessi affaristici, speculativi e criminali che ruotano attorno alla TAV e alla nuova stazione della linea dell’Alta Velocità, “La porta del Sud”, che il prossimo 6 giugno sarà inaugurata, nel territorio di Afragola, alla presenza di Paolo Gentiloni, dei vertici di Trenitalia e dei manager delle principali aziende che curano questo tipo di interventi legati al comparto delle “grandi opere”.
“La porta del Sud” è un opera faraonica, progettata dalla archistar iraniana Zaha Hadid, costata centinaia di milioni di Euro, spesso interrotta nella sua realizzazione per irregolarità varie, ma praticamente, almeno per il momento, poco funzionale per l’attuale stadio di funzionamento delle infrastrutture e dell’intermodalità ferroviaria attorno Napoli e dell’intero meridione d’Italia.
Tornando all’omicidio di Salvatore Caputo sembra che quest’ultimo, in vista dell’imminente apertura della nuova stazione ferroviaria, da alcuni mesi si stesse prodigando per l’assegnazione dei numerosi locali collocati nelle faraoniche gallerie commerciali de “La porta del Sud” e nei diversi comparti di contorno di quest’opera (gestione parcheggi, licenze taxi, opere viarie di collegamento e di interconnessione con la rete stradale, assegnazione della pubblicità). Una complessa azione di lottizzazione, compensazione ed equilibrio tra interessi dei clan della zona, tra gli appetiti dei settori della cosiddetta imprenditoria legale e dei centri politici variamente posizionati. Un lavorio che, evidentemente, non ha trovato una “sintesi” accettabile per alcuni dei vari soggetti impegnati, determinando infine la reazione violenta che lo ha condannato a morte.
Ancora una volta, quindi, attorno al mondo delle grandi opere – e della Tav in particolare – si squaderna il verminaio della speculazione, della grassazione e la pratica delle illegalità più pervasive e che si radicano subito negli habitat sociali circostanti. Questo paradigma è il filo conduttore che si riscontra in tanti casi specifici – oggi attorno a questa mega opera della Tav nel napoletano – ma che risulta chiaramente percepibile in ogni significativa iniziativa infrastrutturale di questa fase.
Il carattere criminale e criminogeno del capitale in questo paese, e dei suoi parossistici meccanismi di accumulazione e di valorizzazione, sono il segno maturo di un degrado delle attuali forme dello sviluppo delle forze produttive che non disdegnano – non l’hanno mai fatto – di coniugare sapientemente modalità dello sfruttamento, uso della politica borghese, implementazione degli affari e compenetrazione ed integrazione nelle pratiche camorristiche e mafiose. E non è un caso che questo stadio di integrazione tra dispositivi “legali” ed “illegali” delle forme della governance economica e produttiva avvenga non più solo a ridosso dei comparti marginali del mercato (droga e similari), ma direttamente nei punti alti degli investimenti pubblici, nella circolazione di capitali e delle merci e nelle loro sofisticate forme della riproduzione.
Il sangue e gli affari criminali di cui sono intrise le grandi opere – ad Afragola come altrove – sono il rovescio della medaglia di una gigantesca narrazione tossica, alimentata dai media della comunicazione deviante del capitale, che presenta queste realizzazioni come “indispensabili e moderne”.
Non a caso il governo Renzi, nell’ambito delle sue controriforme, aveva varato il decreto “Sblocca Italia” che ha consentito di velocizzare gli iter realizzativi di decine di interventi che stanno manomettendo l’ambiente, devastando il territorio, arricchendo – nel contempo – il sistema delle imprese e la criminalità. Una offensiva antidemocratica che sta calpestando, per davvero, ciò che residua degli strumenti di controllo delle “autonomie locali”.
L’opposizione alla corrente filosofia delle grandi opere, la lotta al blocco sociale del cemento e la difesa intransigente dei territori, si dimostrano sempre più necessari e indispensabili per difendere la nostra vita, le nostre terre e la qualità della democrazia; con buona pace di quei servi che – in nome di una funambolica “modernizzazione” a chiacchiere – sono complici con l’affarismo e con la criminalità “legale” ed “illegale”.
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