Continua a salire, senza sosta e a ritmi vertiginosi, il bilancio
delle vittime dell’epidemia di colera che ha colpito lo Yemen. La
seconda epidemia in meno di un anno ha già contagiato 17.200 persone
dal 27 aprile ad oggi e, secondo i dati delle Nazioni Unite, ha ucciso
già 209 persone. Sarebbero 3mila i nuovi casi registrati ogni giorno.
Una situazione allarmante dovuta alle terribili condizioni di vita
nel paese, devastato da una guerra iniziata più di due anni fa: l’acqua
potabile è una risorsa ormai quasi introvabile e quella contaminata sta
provocando una repentina diffusione della malattia. A ciò si aggiunge
l’enorme difficoltà delle agenzie internazionali di portare aiuti
umanitari con costanza e di raggiungere tutte le province del
paese: il blocco aereo imposto dall’Arabia Saudita, la carenza di
carburante e gli scontri quotidiani impediscono alle organizzazioni di
muoversi sul terreno e di sostenere gli ospedali, la metà dei quali è
stata resa fuori uso.
Colera e fame ma anche raid aerei: ieri si è registrata
l’ennesima strage targata Riyadh. Ventitré civili, tra cui donne e
bambini, sono morti nella parte sud-ovest di Taiz, una delle città
fulcro del conflitto. Stavolta la coalizione sunnita a guida saudita conferma, almeno ufficiosamente, per bocca di un funzionario militare anonimo: il bombardamento c’è stato ma si è trattato di un “errore”.
Le bombe hanno centrato un veicolo che trasportava dei civili verso la
cittadini di Mawzaa, a sud ovest di Taiz, tuttora in mano ai ribelli
Houthi.
Tra le vittime sei bambini, anche se i soccorritori hanno difficoltà a
identificare i cadaveri, completamente bruciati. Continua dunque a
salire il numero dei morti della guerra iniziata a marzo 2015: l’Onu è rimasto fermo da mesi ad un bilancio di 10mila morti e 40mila feriti, ma è molto probabile che sia molto più alto.
Una strage che arriva 48 ore prima della visita del presidente Usa in
Arabia Saudita, parte di un tour che toccherà – oltre a Riyadh – anche
Tel Aviv e Ramallah. Trump con sé non porterà solo parole di convenienza sul rafforzamento delle relazioni tra i due paesi, raffreddatesi durante la presidenza Obama seppur mai messe in discussione. Arriverà con un pacchetto di contratti di vendita di armi dal valore totale di 100 miliardi di dollari. In cambio Riyadh ha promesso di investire 40 miliardi in progetti infrastrutturali negli Stati Uniti.
Uno scambio che farà lievitare ancora di più il già ricchissimo arsenale militare saudita, in chiara chiave anti-Iran. Ma a
subirne le immediate conseguenze sarà proprio lo Yemen, utilizzato dai
Saud come valvola di sfogo di un conflitto aperto con Teheran che non
riesce a vincere.
Non la vince nemmeno l’Onu che in due anni ha messo in piedi sette
cessate il fuoco, tutti abortiti sul nascere o durati poche ore. Nei
giorni scorsi l’inviato delle Nazioni Unite per lo Yemen Ismail Ould,
Sheikh Ahmed – rimasto al suo posto dopo il boicottaggio statunitense
del nuovo inviato designato dal Palazzo di Vetro, il palestinese Salam
Fayyad – ha fatto sapere di essere impegnato in un nuovo negoziato volto
a raggiungere una tregua prima dell’inizio del Ramadan, il mese sacro
islamico. Ovvero per il 26 maggio, poco più di una settimana da oggi.
L’ostacolo maggiore è proprio la posizione saudita che non ha mai accettato alcuna apertura:
il movimento ribelle Houthi si è più volte detto pronto ad abbandonare
le armi in cambio di una transizione politica inclusiva, proposta
costantemente rigettata da Riyadh che vuole arrivare ad una resa
incondizionata dei ribelli per riprendere il totale controllo del paese.
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