Corriere della Sera – Mezzogiorno Economia, 24 febbraio 2020
Emiliano Brancaccio, docente di politica
economica presso l’Università del Sannio, sostiene da tempo la tesi
della “mezzogiornificazione europea”: ossia una forbice tra aree forti e
aree deboli che si allarga non più solo in Italia ma a livello
continentale. Le attuali politiche cercano di mitigare questa tendenza
ma per adesso nessuno ambisce a invertirla. E il nuovo “piano per il
Sud”, a suo avviso, non fa eccezione.
Condivide la filosofia del nuovo “piano per il Sud” presentato dal governo Conte bis?
A quanto pare la parola “piano” va di
moda. Pochi anni fa la utilizzò persino il governo Berlusconi per dar
lustro a un’accozzaglia di provvedimenti estemporanei, che non fece bene
al Sud. Questa volta per fortuna è un po’ diverso: nei documenti
presentati dall’attuale governo c’è maggiore consapevolezza dei problemi
reali del Mezzogiorno. Ma nel gergo degli economisti l’espressione
“piano” indica un’economia di comando politico che almeno in parte si
affranca dai meccanismi di mercato. È un concetto impegnativo che
suscita troppe aspettative. Eviterei di usarlo, soprattutto quando la
stazza delle politiche proposte non è sufficiente per affrontare la
crisi in corso.
Quindi è un problema di
“stazza”? Pensa che il problema centrale del Mezzogiorno oggi sia quello
della quantità di risorse o piuttosto quello di spenderle presto e
bene?
È una falsa contrapposizione. Le grandi
innovazioni “di struttura”, che migliorano i tempi e le modalità di
utilizzo delle risorse, avvengono solo grazie a massicci investimenti.
In questi anni, invece, non sono stati trovati nemmeno i pochi soldi che
servirebbero per dotare l’amministrazione pubblica delle competenze
necessarie per impiegare tutti i fondi europei disponibili.
Però nel “piano” si fa
riferimento a un programma massiccio di assunzioni di giovani nella Pa
del Sud. Le sembra la strada giusta per modernizzare gli uffici
pubblici?
È una strada obbligata. Contro una
media OCSE del 18% e punte del 23% in Francia e
addirittura del 30% in Danimarca, nel nostro paese i lavoratori del
settore pubblico sono appena il 13% del totale. Nel Sud
Italia la situazione è aggravata dal fatto che i dipendenti pubblici
sono ancor più anziani e meno aggiornati rispetto alle medie europee. Il
ricambio, l’espansione e la riqualificazione del personale sono dunque
urgenti. Non basta però aumentare la sola forza lavoro. Servirebbero
mezzi di produzione pubblica moderni: attrezzature e infrastrutture,
materiali e immateriali.
La regola del 34% degli
investimenti pubblici al Sud sposterebbe significative risorse dal Nord
al Sud. Secondo lei sarà facile realizzarla o ci saranno resistenze?
Le resistenze ci saranno e non è solo
questione di lotta politica tra Nord e Sud. C’è un problema più di
fondo. Le imprese a partecipazione pubblica ormai operano secondo pure
logiche di mercato: preferiscono effettuare gli investimenti al Nord o
addirittura all’estero, dove il contesto economico è favorevole e i
rendimenti sono più alti. Per superare questo ostacolo bisognerebbe
realmente adottare una effettiva logica di “piano”, che costringa le
imprese pubbliche ad affrancarsi almeno in parte dalla tendenza a
privilegiare le aree forti. In altri paesi qualche cenno in tal senso si
intravede. Ma in Italia siamo ancora lontani da questo modo di
interpretare l’intervento pubblico.
Pensa che le ZES potranno dare
un contributo allo sviluppo dell’economia meridionale, grazie alle
incentivazioni fiscali e tariffarie di cui godono?
L’esperienza storica ci dice che gli
incentivi fiscali costano molto ai contribuenti e funzionano poco e
male. Se non ci sono le condizioni per impostare un “piano” nel senso
compiuto del termine, meglio allora lasciare al meccanismo di mercato il
compito di fissare prezzi e costi e di selezionare per questa via solo
le imprese migliori.
Intervista di Emanuele Imperiali
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento