Europa, Anno Domini 2020.
Gli ultimi dati diramati dagli istituti di statistica delle principali
economie europee forniscono un quadro allarmante sullo stato di salute
del vecchio continente. Partiamo dall’orticello di casa nostra. Nel 2019
l’Italia ha fatto registrare una diminuzione della produzione industriale dell’1,3%
su base annua (il primo segno meno dal 2014), a fronte di un PIL
sostanzialmente al palo (+0,2%) e con una previsione di crescita per il
2020 recentemente rivista al ribasso dalla Commissione europea (+0,3%).
Briciole, insomma. Tuttavia, il dato più singolare è un altro: a
dispetto di ogni retorica, se Roma non ride, Berlino piange. È notizia
piuttosto recente che l’industria tedesca sia in forte frenata: i dati del dicembre 2019 fotografano una produzione industriale che, su base annua, ha fatto registrare un calo del 6,8%.
Un crollo di questa portata non si verificava dai tempi della crisi del
2008-09. E il resto dei paesi dell’Unione Europea? Stando ai dati
dell’Eurostat, nell’ultimo trimestre del 2019 le economie dei 27 paesi
membri hanno registrato un aumento del PIL del 0,1%.
La sincronia di questo rallentamento non è un caso. Due sono le spiegazioni della simultanea frenata di tutti i Paesi europei.
La prima è relativa al fatto che le
economie europee sono molto interconnesse in termini di commercio e
divisione internazionale del lavoro. Se l’economia italiana frena, ci
sarà, oltre che meno domanda di merci italiane, anche meno domanda di merci tedesche.
Pertanto, se rallenta la crescita italiana, rallenterà anche la
produzione in Germania. Lo stesso discorso vale anche al contrario, cioè
dalla Germania all’Italia (e a tutta l’Europa), con la non trascurabile
aggiunta che molti dei beni intermedi utilizzati nella produzione di
prodotti finiti tedeschi (magari proprio quelli che compriamo anche noi)
sono prodotti proprio dalle nostre industrie. Insomma, un cane che si
morde la coda, in un circolo vizioso di bassa crescita, bassa domanda interna, rallentamento della produzione, e siamo punto e a capo.
Certo è che il modello tedesco,
basato su export, compressione salariale e contenimento della domanda
interna, è finito per rivelarsi un vero e proprio boomerang per
l’economia europea. La moderazione salariale permette sì di
essere più competitivi e di esportare di più, ma allo stesso tempo frena
la crescita in quanto schiaccia i consumi interni: quando si
inceppa la domanda dai principali partner commerciali – danneggiati
dall’austerità e da politiche deflattive volte a ristabilire la
competitività esterna – il paese finisce presto in recessione. Il dado è
tratto: l’applicazione su scala europea di questo modello di (non)
crescita non ha fatto altro che produrre disoccupazione e stagnazione in
tutta l’area. Chi semina sfruttamento, raccoglie crisi.
La seconda spiegazione, meno immediata
della prima, riguarda la politica fiscale e l’applicazione generalizzata
dell’austerità in tutta Europa. Dovremmo essere ormai consapevoli
dell’operato degli esecutivi italiani, ma ribadiamolo. Da ormai
trent’anni, indipendentemente dal colore politico dei gestori di turno
dell’austerità, l’Italia realizza avanzi primari: dal 1992 i governi che si sono succeduti hanno sempre realizzato un’eccedenza delle entrate fiscali sulla spesa primaria,
drenando in questo modo risorse dall’economia. E come si comporta
invece, su questo fronte, l’efficiente e moderna Germania? Negli ultimi
anni, il bilancio della pubblica amministrazione tedesca fa segnare
importanti avanzi (addirittura complessivi, non solo primari, dunque
anche contando tra le uscite la spesa per interessi sul debito pubblico)
e proprio nel 2019 il surplus di bilancio ha raggiunto la cifra record
di 13,5 miliardi di euro. Si tratta, per farla breve, di un’applicazione
dell’austerità ancora più accentuata di quella applicata dall’Italia da
tre decenni.
Non a caso, proprio ora che Berlino ha evitato per un soffio la recessione tecnica
(un termine convenzionale utilizzato quando il PIL cala per almeno tre
trimestri), pare che il governo tedesco si appresti ad aprire i
rubinetti della spesa pubblica, annunciando un piano straordinario
di investimenti, per dare un po’ di linfa all’economia. Della serie:
all’occorrenza, quando l’economia va talmente male da far boccheggiare
anche le imprese, lo stimolo all’economia tramite intervento statale non
è poi così male... La Germania ci dimostra quindi che si supera una congiuntura negativa solo con la spesa pubblica in deficit, ossia proprio con il tipo di politica fiscale che la Germania in primis
vieta a tutta la periferia tramite le istituzioni europee. “Eh ma la
Germania ha fatto la brava formichina, quindi adesso può permettersi la
spesa in deficit!” esclamerebbe infuriato Marattin,
dimostrando tutta la pochezza della sua teoria economica di
riferimento. Ci permettiamo di ricordare che il rapporto debito-PIL è
salito in tutti i Paesi che hanno applicato l’austerità: è quindi falsa
la necessità di realizzare avanzi di bilancio per avere ‘spazio
fiscale’. Al contrario, il modello tedesco ci mostra che le politiche
fiscali restrittive pongono le premesse per la recessione e dunque per
la necessità di disavanzi.
Insomma, questi due argomenti ci portano ad una conclusione: è notte fonda in Europa e la tempesta sta arrivando,
sia al centro (pare che anche la Francia abbia iniziato a rallentare...) sia in periferia. Ma siccome, diciamolo ancora una volta, non siamo
tutti sulla stessa barca, la tempesta, quando arriverà, non finirà per travolgere tutti allo stesso modo.
Le conseguenze sul piano distributivo di questa stagnazione – o, se
sopraggiungerà, di un’altra crisi nera – non potranno che essere
deleterie per la classe lavoratrice europea: una recessione
generalizzata significa principalmente riduzione dell’occupazione e dei
salari in tutti i paesi europei.
Come se ne esce? Come si possono arginare
queste tenebre? La risposta è tanto semplice da immaginare quanto
complicata da mettere in pratica poiché, contrariamente a quanto possa
sembrare, è tutta politica. Una netta inversione di tendenza potrà
infatti verificarsi solo rimettendo al centro dell’agenda politica
l’obiettivo della piena e buona occupazione e della crescita dei salari,
con misure diametralmente opposte rispetto a quelle imposte dalle regole europee, che invece vedono nell’export il principale volano per la crescita. In
tempi bui come quelli che stiamo attraversando, non possono che essere i
governi a stimolare la domanda aggregata e quindi la produzione e la
ripresa economica. Ma si tratta di politiche che, favorendo la
ripresa occupazionale, sarebbero capaci anche di favorire l’avanzamento
delle classi subalterne, contribuendo a spostare i rapporti di forza dal
capitale al lavoro. Ed è proprio per questo motivo che all’interno
della gabbia europea non c’è spazio per nessuna misura di piena
occupazione e per nessun significativo intervento in economia da parte dello Stato,
che potrebbero portare un effettivo mutamento dello status quo. Questo vale anche per i recenti e zoppicanti tentativi di green washing ad opera delle istituzioni europee, che cercano – attraverso la cortina fumogena di un green deal
forte a parole e risibile nei numeri – di far dimenticare decenni di
austerità, mentre la stessa austerità continuano a imporla senza batter
ciglio.
E poco conta che il prezzo da pagare
siano anni di recessione o di bassa crescita, il fallimento di migliaia
di imprese e l’aumento massiccio di una già elevatissima disoccupazione:
il grande capitale non può che sguazzare in questo mare magnum di sfruttamento del lavoro su scala europea.
Ecco allora che periodi di stagnazione come quello che stiamo vivendo
accendono i riflettori, nel mezzo della notte europea, su tutte le
peculiarità del progetto politico dell’integrazione europea: un progetto
che si presenta come il più grande successo di chi ha voluto sopprimere
anni di conquiste da parte dei lavoratori nella povertà, nella
disoccupazione e nella precarietà.
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