Il “Comitato europeo dei diritti sociali” (Ceds) ha reso pubbliche, lo scorso 11 febbraio, le conclusioni del rapporto in merito all’indennità risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo prevista dal “Contratto a tutele crescenti” (Catuc) entrato in vigore con il D.l. 23/2015, meglio conosciuto come il “Jobs Act”.
Secondo il Ceds, il Jobs Act con l’abrogazione dell’articolo 18, escludendo a priori la possibilità di reintegro (se non in rarissimi casi) del dipendente e prevedendo un tetto massimo all’indennizzo dovuto dall’azienda, «incoraggia, o quanto meno non dissuade, il ricorso al licenziamento illegittimo», violando così l’articolo 24 della “Carta sociale europea” secondo cui un lavoratore ha diritto a una tutela effettiva e realmente dissuasiva nei confronti del licenziamento illegittimo.
L’abrogazione dell’articolo 18 infatti aveva cancellato l’obbligo di reintegro del lavoratore licenziato ingiustamente per le aziende con più di 15 dipendenti, sostituendolo con un’indennità monetaria che andava da un minimo di 4 a un massimo di 24 mensilità da stabilire in base all’anzianità di servizio. Il “Decreto dignità”, tra le altre timide riforme che nulla intaccavano della logica del Jobs Act, aveva di fatto solo aumentato le mensilità minime-massime entro cui stabilire l’indennizzo, portandole rispettivamente a 6 e 36.
Su questo si era già espressa la nostra Corte costituzionale, che aveva giudicato contraria a i principi di ragionevolezza le disposizioni contenute nell’art. 3, comma 1, riferenti la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore, riattribuendo al giudice la possibilità di stabilire l’indennizzo più congruo oltre i parametri della mera anzianità, dovendo però rispettare la forbice riveduta nel Decreto dignità.
Il Ceds ha ritenuto di andare oltre la sentenza della Corte costituzionale, concludendo che non è ammissibile prevedere un tetto massimo al risarcimento dovuto al lavoratore o alla lavoratrice, inammissibilità su cui grava il meccanismo di riconciliazione previsto dall’art. 6 secondo cui il datore di lavoro può evitare il giudizio mediante l’offerta al lavoratore di una somma pari a una mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio, esentata da oneri fiscali e contributivi, somma che la vittima dell’abuso è di norma orientato ad accettare (risarcimento magari inferiore, ma incassabile in tempi più brevi e quindi con riduzione delle spese legali).
In questa maniera al datore di lavoro verrebbe sottratta l’arma della valutazione puramente economica (in termini di costi-benefici) dinanzi al licenziamento anche consapevolmente illegittimo di un dipendente, non potendo più prevedere l’entità massima della sanzione. Così facendo, il Ceds ha accolto il Reclamo collettivo n. 158 presentato dalla Cgil nel 2017 con il sostegno della Confederazione europea dei sindacati.
Una buona notizia dunque, che tuttavia non garantisce nessun effetto sulla realtà della vita lavorativa dei dipendenti delle aziende medio-grandi del nostro paese, né pone l’accento sulla necessità della reintroduzione piena dell’articolo 18, essendo la reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato suggerita lì dove si pongano le condizioni “concretamente praticabili”.
Infatti il Ceds (composto da 15 membri eletti dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa) è l’organo responsabile del controllo di conformità dei membri aderenti alla Carta sociale europea, ma le sue conclusioni, al contrario per esempio dei pronunciamenti della Corte di giustizia, non sono vincolanti nel nostro ordinamento.
E sono prive di efficacia esecutiva anche quelle del Consiglio d’Europa (composto dai 47 ministri degli esteri dei paesi membri, da non confondere né col Consiglio dell’Unione europea, né col Consiglio europeo), a cui il Ceds ha trasmesso il rapporto ma che formalmente è un’organizzazione estranea, seppure non priva di un certo peso politico, all’Ue: ciò significa che le sue iniziative hanno un valore di semplice indirizzo e non possono essere invocate alla Corte europea dei diritti dell’uomo come parametro di legittimità delle legislazioni nazionali.
Il fatto allora potrebbe avere risvolti politici importanti solo se ci fosse nel paese una mobilitazione tale da mettere sotto pressione il governo attuale (meno credibile le istituzioni dell’Unione, storicamente sorde alle rivendicazioni delle popolazioni dei propri membri, come insegnano la Grecia e la Catalogna) e costringerlo a una vera presa di posizione contro un dispositivo di legge, peraltro, partorito proprio dal Partito democratico e non rinnegato dal Movimento 5 stelle, le due formazioni attualmente al governo.
Se non dalla maggioranza, questa pressione di certo non potrà venire dalla Lega o dai restanti partiti di destra oggi all’opposizione, i quali di un impianto legislativo che sposta i rapporti di forza nel campo delle imprese mediante l’abbandono della prerogativa della stabilità come carattere principale del rapporto di lavoro (venuta meno con la “semplificazione” della disciplina sul licenziamento), sono ben contenti.
A dispetto dell’accoglimento del proprio Reclamo, crediamo che neanche la Cgil (così come la Cisl e la Uil) metterà in moto le proprie strutture per tramutare le parole del Ceds in fatti concreti per la classe lavoratrice. Proprio sul Jobs Act, l’allora accoppiata Landini-Camusso spese infinite parole formalmente in opposizione al “capolavoro teorico” partorito da Pietro Ichino e tradotto in legge dal Pd targato Matteo Renzi, salvo prima movimentare la base quando la legge delega al governo era già stata approvata, e poi firmando, nelle settimane immediatamente successive all’entrata in vigore del Catuc, i contratti del commercio (tra le altre cose, obbligo del lavoro domenicale e possibilità dell’impresa di impartire turni da 44 ore settimanali per 16 settimane) e dei bancari (settore in assoluto bisogno di “flessibilità in uscita” dovuto alle pesanti ristrutturazioni, garantita dall’abrogazione dell’articolo 18), di fatto sottoscrivendo e applicando ciò che sulla carta osteggiava.
Inquadrandolo in una tendenza storica, questa posizione sembra coerente sia con l’ambiguità mostrata dalla segreteria della stessa Cgil targata Epifani alla possibilità, col referendum del 2003, di allargare (tra le alte cose) l’articolo 18 alle imprese con meno di 16 dipendenti (proprio Epifani pronunciò un timido sì solo per sganciare la direzione dall’influenza dell’ex segretario Cofferati, schieratosi addirittura per l’astensione, che aveva difeso lo Statuto dei lavoratori contro l’attacco berlusconiano: motivazioni dunque più di opportunità politica che di battaglia ideologica, come sembrano essere i canti di vittoria odierna per le conclusioni del Ceds, probabilmente per staccare la base dalla deriva leghista), sia con gli ultimi accordi sulla rappresentanza, sulla ripresa economica e sugli Stati uniti d’Europa firmati di concerto con la Confindustria e con la Cisl e la Uil, in una “bizzarra convergenza” tra associazioni padronali e sindacali che mal si sposa con gli interessi contrapposti di cui dovrebbero farsi portatrici.
Al mondo del lavoro l’amara (neanche troppa) consapevolezza di essere al centro di un feroce attacco lungo oramai un quarantennio, fatto di un progressivo e per ora inesorabile arretramento in termini di sicurezza di reddito e di tutele, fino a quella della vita (17mila morti sul lavoro accertate solo nell’ultimo decennio). Per il riscatto tuttavia le parole non possono bastare.
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