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22/02/2020

Di Veltroni e d’altri revisionismi

Da qualche anno l’approssimarsi del 22 febbraio ci costringe allo stillicidio revisionista della memoria condivisa. In questo, Veltroni si è ritagliato un ruolo di primus inter pares, di agitatore e facilitatore della riconciliazione, artefice di buoni sentimenti e ricongiungimenti familiari. Quest’anno la parte del morto a pretesto è toccata a Sergio Ramelli. Povero Ramelli verrebbe da dire, sicuri che neanche lui approverebbe l’uso pacificato della sua memoria, la violenza sulle sue idee e sulle ragioni della sua morte, da parte di una politica viscida che banchetta sul cadavere del neofascista per ragioni politiche aliene al ricordo del caduto e di quegli anni. Ma Veltroni è una macchietta di se stesso: critico mancato, regista fallito, scrittore frustrato, comunista per accidente. Lasciamolo dunque nel suo mondo di risentimento mascherato.

Curiosi invece i commenti della sinistra, tutti o quasi volti ad attaccare Veltroni e il suo perbenismo codino. Bene, verrebbe da dire: Ramelli era un fascista, si meritava la morte, o quantomeno quello era il contesto, poche chiacchiere. Un netto passo in avanti, sebbene non in linea con la pacificazione della lotta politica e la sterilizzazione della violenza che caratterizzano questi anni. Un po’, va da sé, lo fa il tempo: gli anni Settanta diventano come la Resistenza, gli eventi si allontanano e si spersonalizzano, più facile diventa dunque il processo di “oggettivizzazione” delle vicende. Un po’ anche, forse, l’esigenza di legittimarci oggi difendendo il nostro passato, preservandone una liceità che si proietta sulle lotte del presente. Fatto sta che su alcuni episodi di revisionismo politico, dagli anni Settanta alle foibe per dire, se fino a dieci o quindici anni fa regnava il silenzio imbarazzato, oggi è tutto un coro di rivendicazione, spesso sguaiata. Si fa il tifo, consci di trattare eventi distanti da noi, nel tempo o nello spazio. Eventi che non torneranno. Questo tifo ci sembra problematico, inutile – in fondo – alla comprensione del revisionismo in corso da anni e inutile alla riattivazione di una consapevolezza storica in grado di stimolare processi politici.

Eppure la morte andrebbe trattata con più rispetto. Quello che andrebbe ricordato e rivendicato – e che invece fa orrore a tanta parte di quella “sinistra” che oggi attacca Veltroni – è il contesto politico degli anni Settanta. Ramelli, così come Verbano e le altre centinaia di morti militanti, non sono caduti perché “colpevoli” di qualcosa che giustificasse la loro morte, anche perché nulla, direbbe Lukács (non Don Milani), giustifica il “dare la morte” (se non le conseguenze di un’etica rivoluzionaria che ti costringe a commettere il peccato: ma lasciamo perdere): sono le lotte di classe di quegli anni, lo scontro armato e la guerra civile strisciante, la repressione e la strategia della tensione, le bombe in piazza e sui treni, le carceri speciali e le torture, la radicalizzazione della lotta politica, che spiegano la violenza. È la spinta insurrezionale che caratterizzò quel decennio che spiega – e giustifica – i caduti. «La rivoluzione», ebbe a ricordare Georges Clemenceau in riferimento alla Rivoluzione francese, «è un blocco; si tratta di accettarla tutta o tutta respingerla». La storia à la carte non è possibile, nonostante sia di moda oggi selezionare le storie edificanti, depurandole dalla cattiveria che caratterizza le vicende dell’uomo, costruendo così un passato ad uso e consumo della propria carriera politica. Vale per ogni occasione della storia, vale anche per gli anni Settanta.

Ci spiegano, i commentatori del senno del poi, che non c’era nessuna “rivoluzione” in corso in quegli anni. Possiamo anche essere d’accordo, ma così non era per quella generazione, che si stava giocando una sua partita e dentro le logiche della rivoluzione – non d’altro – compiva le sue scelte. È solo la rivoluzione che può spiegare il problema di quella violenza e di quelle morti. Dentro altre logiche è inspiegabile. Tentare di giustificare la morte di Ramelli con motivi d’illuminismo liberale è un controsenso: nessuno merita la morte, men che meno per quella sinistra che ha fatto del garantismo un suo pregiudizio ideologico. L’unica logica è interna ad un processo rivoluzionario, ai ragionamenti di chi in quel preciso momento provava a fare una rivoluzione. Che magari, per l’appunto, era solo nella sua testa, fuori dalle dinamiche o dalle potenzialità reali: tutto plausibile. Eppure, se ci piace definirci rivoluzionari, è dentro quella logica che dobbiamo entrare, non interpretarla dall’esterno attraverso ardite – e sadiche – giustificazioni post festum.

In questi anni gli stessi che ci hanno spiegato del valore deleterio della violenza, degli errori politici dello scontro armato, dell’eccessiva radicalizzazione o ideologizzazione dei gruppi politici, ci dicono oggi che Ramelli se l’è cercata “in quanto fascista”, che Veltroni è “buonista”, che la memoria condivisa “non si può fare”. Qualcosa non torna insomma. Come i santini di Stalin o gli sghignazzi sulle foibe o il Triangolo rosso, questo modo così immediato di riappropriarsi di una “nostra” violenza appare la conseguenza di una neutralizzazione del significato politico di quegli eventi più che una reale presa di coscienza. Quello che ci dice nel profondo – e cioè che quella nostra storia è definitivamente sepolta – è più di quel che ci dice in superficie.

Ma queste sono riflessioni tra compagni. Nel ricordare i nostri, di caduti, e in primo luogo Valerio Verbano – di cui si compiono quest’anno i quarant’anni dalla sua morte – bisognerebbe ribadire che è morto perché rivoluzionario, non altro. Non era capitato per caso in quello scontro, non era una vittima inconsapevole: sapeva a cosa andava incontro, perché per primo lo metteva in conto verso i suoi nemici. Questa la storia. Poi c’è l’edificazione del santino buono per ogni latitudine. Ma questa roba non è interessante.

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