Eravamo stati facili profeti nel denunciare la Lega di lotta e di governo per quella che poi si è dimostrata essere: una ignobile presa per i fondelli.
Le dichiarazioni recenti di Matteo Salvini e del cosiddetto “numero
due” della Lega, Giancarlo Giorgetti, certificano, laddove ve ne fosse
ancora bisogno, la natura dell’ex partito del Nord: un ricettacolo di pagliacci, utili sparring partner
delle istituzioni europee. Nel tranello erano naturalmente cascati,
oltre che gli elettori della Lega, i “responsabili” partiti di
centro-sinistra, che si battevano il petto denunciando l’antieuropeismo e
l’irresponsabilità dei Salvini-boys, decretandone, naturalmente, un
duraturo successo elettorale. E ci era forse cascato, ahinoi, anche
qualche compagno che magari aveva immaginato che, turandoci il naso per
non sentire il tanfo di merda delle politiche razziste, securitarie e
retrivamente tradizionaliste da sempre sbandierate dai leghisti, avremmo
potuto ottenere l’uscita dalla gabbia dell’euro e dell’austerità. Tutte
cazzate, ovviamente, ma andiamo con ordine.
Terminata la fase della campagna
elettorale, era iniziata l’avventura del governo gialloverde. Un
esecutivo che, molti lo ricorderanno, aveva sperimentato una falsa
partenza con la patetica pantomima sulla partecipazione al Governo,
addirittura come Ministro dell’Economia, del Professor Paolo Savona, con
la sua immeritata fama di euroscettico. Risolto il ‘problema’ Savona,
5 Stelle e Lega si erano incamminati lungo il percorso che avrebbe
portato a Palazzo Chigi la prima incarnazione del Governo Conte. Un
sentiero, come era prevedibile, costellato di manganelli, sceriffate e
becera xenofobia, ma che alla prima prova dei fatti aveva dato prova di
non avere altro da offrire.
Non è facile dimenticare la gestione
della prima e unica legge di bilancio del Conte-I. Tutto parte con un
iniziale deficit annunciato al 2,4 per cento del PIL con toni
trionfalistici, che comunque corrispondeva ad un avanzo primario che avrebbe sottratto risorse al finanziamento della spesa pubblica, del welfare, degli investimenti. Poi era arrivata la prevedibile tiratina d’orecchie
da parte dei guardiani dell’austerità e l’altrettanto prevedibile
marcia indietro, con la ridicola operazione di maquillage che aveva
fatto propendere i leoni gialloverdi per una cifra più moderata, ma che
somigliasse a quella iniziale (2.04). E poco conta che, passando da 2.4 a
2.04, si riducesse la differenza tra spese ed entrate di altri 6
miliardi di euro, un ammontare pari al totale dei fondi messi a
disposizione per il Reddito di Cittadinanza, per capirci. Ai gialloverdi
e, per rimanere in tema, ai leghisti, di questo non importava un bel
nulla.
Ai primi malumori dei malcapitati
boccaloni, che facevano notare, delusi, la sostanziale continuità con
decenni di governi asserviti alle logiche della deflazione salariale e
dell’austerità punitiva, avevano risposto i tirapiedi di Salvini, grati a
quest’ultimo per la “cadrega” che gli era stata garantita in cambio
dell’assoluta fedeltà, anche a discapito di una già dubbia dotazione di
dignità. Ma non facciamone una questione di moralità: siamo tutti un po’
vanitosi e cinque anni fuori dall’anonimato avrebbero fatto girare la
testa a molti. C’è, però, un lato negativo, e cioè che scripta manent.
Come scordare le intemerate di Bagnai e
Borghi? Ricordiamo che i due compari sono considerati tra i principali
“teorici” dell’uscita dall’euro e, oltre ad operare a tempo pieno come macchiette,
ricoprono nella corrente legislatura le cariche di Presidente della
Commissione Finanze del Senato e di Presidente della Commissione
Bilancio della Camera. A testimoniare le loro posizioni,
rispettivamente, troviamo due testi come Il tramonto dell’euro e Basta euro!, ma anche valanghe di tweet
bellicosi che preconizzavano l’imminente uscita dall’euro. Poi, dopo
che i ruggiti di Salvini si erano trasformati in miagolii (o, tutt’al
più, rutti), erano arrivati i commenti più patetici che si possano
immaginare, roba infantile del tipo “eheh, tranquilli, stiamo lavorando,
sottotraccia, per voi. Ma mica lo possiamo dire a tutti. Abbiate
pazienza e, quando meno ve l’aspettate... (non a caso, erano stati poi
ribattezzati “Volta & Gabbana”).
Il resto della storia è cronaca recente,
con il Papeete, la fine del governo gialloverde, il teatrino di Palazzo
Madama, Bagnai che, durante il discorso di Salvini, applaude e ride a
comando come una scimmia ammaestrata, e, infine, il governo Conte-bis.
Ci sarebbe già da stendere un velo
pietoso e rimandare nel dimenticatoio questi grotteschi personaggi, ma
al peggio, purtroppo, non c’è mai fine. Nel recente incontro con la
stampa estera, Salvini ci ha tenuto a rassicurare tutti sulla docilità
della Lega rispetto ai desiderata di Bruxelles, nonché, di conseguenza,
sulla sua natura di quaquaraquà.
I mini-bot? Dimenticateli, quelli “erano uno strumento per pagare i debiti della pubblica amministrazione”, mica per uscire dall’euro.
Non dite che ci avevate creduto! Italexit? Per carità, neanche a
parlarne: “la nostra priorità non è uscire da qualcosa, ma la crescita
economica”. E, se non fosse chiaro, la chiosa: “Con la Lega al governo
non si esce dall’Euro o dall’Unione Europea”. Niente male, per uno che
aveva iniziato dicendo “Non siamo noi ad aver fatto inversione ad U”.
Non si potrebbe essere più chiari di così.
O forse sì, perché a mettere la parola
fine alla storiella della Lega che combatte, coltello tra i denti, per
uscire dalla moneta unica, ci pensa un altro alto papavero del partito
di Salvini. Giancarlo Giorgetti, intervistato sul Corriere, ribadisce:
con la Lega non si esce da un bel niente. Trova addirittura il tempo per
una sviolinata a Mario Draghi. A una domanda su come vedrebbe l’ex
Presidente della Banca Centrale Europea al Quirinale, il nostro
risponde: «Quello che so è che Draghi è il personaggio italiano che in
giro per il mondo potrebbe parlare con qualsiasi interlocutore al suo
stesso livello. Se dovesse ritirarsi al mare o in montagna sarebbe una
perdita per l’Italia». E il messaggio è anche per B(agnai)&B(orghi).
A Polito, che gli chiede come si possano conciliare queste
dichiarazioni con la presenza dei due parlamentari tra le file della
Lega, l’ex sottosegretario risponde lapidario: «Io sono il responsabile degli Esteri della Lega. E se dico che non usciamo, non usciamo. Punto». Parole che, quantomeno, hanno la virtù di permettere di inquadrare nella giusta prospettiva gli ultimi e patetici tentativi di Salvini
di tenere il piede in più scarpe al contempo, strepitando per poi
riproporre il mantra del cambiamento delle istituzioni europee
dall’interno.
Punto, insomma. Con buona pace di chi ci
era cascato e degli stessi Borghi e Bagnai. Ci chiediamo, quindi, cosa
faranno questi ultimi. Continueranno a far finta di niente o, peggio
ancora, a prendere in giro i loro fan con riedizioni dello stucchevole
ritornello “noi sappiamo, ma non possiamo dire”? O, in un sussulto di
dignità, si ritireranno dalla compagine leghista per coerenza con le
loro posizioni? La risposta all’arcano è tanto scontata quanto poco
interessante.
Ciò che è più importante, è ribadire,
forti di queste dichiarazioni, che la Lega non ha (e non ha avuto) mai
nessuna intenzione di rompere per davvero con le istituzioni europee.
Questo non esclude che l’operazione politica messa in piedi dalla Lega
sia stata un clamoroso successo, riuscendo ad intercettare,
strumentalizzare e rendere innocuo il giusto dissenso verso la cieca
austerità di matrice europea, contribuendo a rafforzarla con i fatti
mentre il chiacchiericcio scomposto del capitone Salvini distraeva i
media e abbindolava gli europeisti di casa nostra. Per quel che riguarda
l’euro, le regole di bilancio, l’austerità, la disoccupazione come
strumento disciplinare, la Lega continua a guardare soprattutto al suo
blocco sociale, padroni e padroncini tutt’altro che preoccupati dalla
pressione al ribasso sui salari, dal libero movimento dei capitali,
dall’antagonismo indotto tra lavoratori autoctoni e stranieri. Da questa
trappola si esce soltanto tenendo ben presente che il vero antagonismo,
l’unico che conta quando si parla di salari e condizioni di vita dei
lavoratori, è quello di classe. E che se vogliamo avere voce in
capitolo, dobbiamo marciare uniti e non fidarci di chi vuole dividerci.
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