They’re tryin’ to build a prison“I System Of A Down vogliono prendersi Hollywood!”, deve aver pensato chi nel 2001 si è trovato per le mani "Toxicity". Nell’iconica copertina del secondo disco del gruppo, infatti, le lettere del loro nome sostituiscono quelle del vicinato più sfavillante di Los Angeles sulla sua famosa collina. E se la presero Hollywood, i SOAD, e non solo, verrebbe da dire oggi col proverbiale senno di poi.
for you and me to live in,
another prison system
for you and me.
Il disco debuttò al numero uno della classifica americana e di quella canadese, ottenendo numeri spaventosi un po’ ovunque anche nel resto del mondo. Erano altri tempi, potrebbe opinare qualcuno. Eppure, l’impresa assume dei connotati sbalorditivi anche in un’epoca in cui il rock in classifica non era il miraggio che è oggi.
Come una formazione interamente composta di figli di sopravvissuti al genocidio armeno abbia conquistato gli adolescenti di mezzo mondo con un disco di rock estremo contaminato con il folk della propria terra d’origine (o talvolta greco) rimane un mistero. O forse no. Forse è tutto molto più semplice. Al di là di barriere, stile ed etnie, “Toxicity” è semplicemente un capolavoro: una bomba atomica sonora e politica, capace di scuotere la coscienza e le teste di chiunque l’ascolti.
Fino a quel momento la storia del gruppo (composto da Daron Malakian a chitarra e voce, Serj Tankian a voce, seconda chitarra e tastiere, Shavo Odadjan al basso e John Dolmayan alla batteria) era stata contrassegnata da una crescita costante e una rapida affermazione nella scena alternativa heavy statunitense. Formatisi nel 1994, i System Of A Down debuttano nel 1998 con l’album omonimo: un concentrato di melodie esplosive, adrenalina, furia ossessiva e soprattutto carica politica, che riscuote un enorme successo e diventa disco d’oro in poco tempo. “Toxicity”, il loro capolavoro, richiede altri tre anni per venire alla luce e in un colpo solo esalta tutti gli elementi positivi immediatamente riconoscibili della musica del gruppo, rielaborandoli in modo da renderli ancora più unici e indefinibili tramite canzoni sferraglianti, splendide e vibranti.
Il gruppo nasce nel contesto del ribollente calderone nu-metal. Sono infatti evidenti negli esordi le influenze da parte dei padrini del genere, i Korn, che traspaiono nelle ritmiche aggressive dal taglio sincopato, nel particolare riffing marcato e dall'accordatura ribassata, e poi nel canto di Serj Tankian che ricorda talvolta le litanie alienate e psicotiche di Jonathan Davis, ma in una versione più folle e urlata. Oltre ai Korn, però, è evidente anche l’influenza dei primi Deftones, a volte diretta, ma più spesso indiretta, perché a collegarli in maniera spuria ai System Of A Down c’è a monte una marcata radice hardcore-punk.
Anzi, nel mix del gruppo armeno-americano, l’elemento hardcore è ancora più evidente ed essenziale e il riferimento principale sono i Dead Kennedys, di cui viene ripresa non solo l’aggressività dello stile, ma anche l’attitudine a rendere le composizioni più elaborate e particolareggiate, ricche di dettagli sonori e di spunti provenienti dalla new wave, dall’approccio maturo e consapevole, seppur senza rinunciare a un’iconoclastia furibonda. In seconda misura vi sono anche reminiscenze del crossover-thrash (uno stile nato dalla fusione di hardcore-punk e thrash-metal negli anni 80) di Suicidal Tendencies e Carnivore.
Non semplicemente furia incontrollata, dunque, ma una violenza che riesce a essere a suo modo elegante, variopinta. Un connubio di dolce e amaro tanto spontaneo quanto elaborato. Inoltre, quando Tankian non ricorda Davis, adotta spesso e volentieri linee vocali molto vicine all’istrionismo di Jello Biafra, con un canto efferato, sregolato ed eversivo, capace però di suonare anche magniloquente, come se recitasse dei veri e propri manifesti politici in maniera urlata.
In effetti, anche la peculiare politicizzazione lirica (dai connotati molto polemici, financo umoristici e sarcastici) è figlia dell’hardcore-punk, e in particolare proprio dell’approccio dei seminali Dead Kennedys, piuttosto che dell’introspezione esistenzialista maggiormente diffusa in gran parte del nu-metal. È per certi versi vicina anche all’attivismo dei concittadini Rage Against The Machine, sebbene Tankian non rappi come Zack de la Rocha, e ai brasiliani Sepultura di Max Cavalera, senza però gli elementi più death e sostituendo l’influenza della musica etnica brasiliana con quella della tradizione armena. Questi ultimi, peraltro, al nu-metal si erano avvicinati pochi anni prima (con "Roots") partendo dal groove-metal, avendo loro stessi influenze hardcore tangibili, e confezionando il tutto in un pacchetto micidiale, dall’attitudine proletaria e ribelle: si tratta dunque di un’altra influenza evidente che Tankian e soci reinterpretano a modo loro.
Un altro punto di riferimento importante sono i Faith No More, in particolare quelli di “Angel Dust” che ispirano al gruppo molte delle basi con cui coniugare potenza, melodia ed eclettismo sonoro e canoro. Non dovrebbe stupire: si tratta in fondo di un gruppo che ha influenzato tutta la scena metal alternativa, crossover e nu-metal anni 90.
Invece, può stupire sapere che accanto a loro vanno segnalati anche i Beatles, principalmente per quanto riguarda la capacità di sintesi, di scrivere canzoni brevi ma efficaci. Per esempio, in un’intervista a Rolling Stone, lo stesso Malakian spiega: “I Beatles mi hanno fatto capire la struttura delle canzoni, mettere tutto in tre minuti, a comprimere queste cose. Magari a rimuovere qualcosa, che come compositore penso sia tre le cose più difficili al mondo. È facile continuare a mettere su idee perché piacciono tutte le proprie idee. Ma per rendere una canzone grande, a volte bisogna rimuovere qualcosa ed è quella la parte più difficile. Quale parte di una canzone rimuovi per renderla grande? È la sfida più grossa.”
Infine, i System of a Down raccolgono e fanno proprio il folk armeno, tanto in diverse melodie e sequenze che integrano negli arrangiamenti, in prevalenza chitarristici, quanto in occasionali inserti acustici. Sintetizzando, tutti questi elementi miscelati in maniera personale dai SOAD fanno sì che la semplice etichetta nu-metal stia loro stretta: sono un gruppo ancora più peculiare e caratterizzato, soprattutto se confrontato con gli esponenti nu di maggior successo allo snodo tra i due secoli, come i Linkin Park, molto più semplicistici e lineari.
Ciò si poteva dire in parte già dell’omonimo debutto, ma con “Toxicity” diventa tutto ancora più evidente, perché il gruppo sfoggia una palpabile maturazione compositiva e l’amalgama di influenze è ancora più fluido e compatto, dando vita a uno stile di metal alternativo personalissimo, che rifugge ogni paragone o precedente.
Il disco
Prodotto da Rick Rubin e dalla band di Glendale, “Toxicity” è un disco originale, nervoso e fresco, che riorganizza il suono del brutale debutto del 1998 puntando maggiormente su ariose aperture melodiche, arrangiamenti ancor più robusti e toni epici e innodici più marcati. Ma sarebbe riduttivo limitarsi a questo, al cospetto del balzo in avanti compiuto dalla band armena.
Il disco inizia come termina: senza compromessi. Arringando furentemente contro l’incarcerazione di massa, “Prison Song” è un brano tiratissimo e distruttivo che ricorda da vicino l’attivismo di altri grandi losangelini, i Rage Against The Machine. Svela inoltre uno dei più grandi trucchi della formazione, che ricorre spesso e contribuisce a valorizzare i loro dischi: la loro enorme teatralità. Le voci di Malakian e Tankian mettono in scena un costante dialogo psicotico. I due vocalist sembrano due detenuti di un penitenziario psichiatrico che cantano l’uno sull’altro nell’ennesima notte insonne.
Il primo cantilena mesmerico e nasale senza trovar pace o sonno. Il secondo è invece una belva che ha già oltrepassato il collasso nervoso: sbraita e ringhia incontenibile, dimenandosi e sbattendo contro le strette e rocciose pareti della cella e le sue sbarre. I loro canti si uniscono, si inseguono, si accavallano e scontrano nei corridoi bui e privi di speranza del panottico, dando vita a una delle sezioni vocali più uniche e peculiari nella storia del rock pesante.
La successiva “Needles” continua su questa direttiva, tra attacchi hardcore-punk, riff granitici thrash-metal e brevi distensioni alternative-rock che esprimono malinconia assieme a una forte tensione psicologica di fondo. Così si prosegue attraverso le nenie ossessive di “Deer Dance”, impreziosita da vocalizzi e spunti acustici folkeggianti che si alternano alle urla impetuose e alle chitarre cavernose. “Jet Pilot” e “X” spiazzano con le loro cantilene distruttive, la sezione ritmica dinamitarda, la batteria bulldozer e una chitarra che apre crepe nel terreno alla stregua di un terremoto: degli incroci terrificanti tra Korn, Pantera, Slayer e melodie armene.
Si giunge così al celebre singolo “Chop Suey”, introdotto da una piacevole esecuzione acustica, elemento che continuerà a caratterizzare con eleganza e notevole cura sonora il brano, alternandosi agli spietati riff hardcore, quasi speed-metal nei momenti più spediti, ma più spesso usati ponendo enfasi sulle interruzioni e sulle distensioni (in particolare, l'emozionante coda con tanto di aggiunta di archi e pianoforte di sottofondo, in cui ci si avvicina all'art-rock). “Bounce”, invece, è un vero e proprio manifesto programmatico di pogo, che attinge a piene mani dall’hardcore e vi aggiunge un ritornello vocale schizzato e divertentissimo.
In assenza di duetti e controcanti, è Tankian, cantante provetto nonché polistrumentista (suona anche la tastiera e la seconda chitarra ritmica), a prendersi tutta la scena, con un cantato nervoso, scattante e cangiante, che agevolmente passa da fraseggi melodici cullanti a urla rabbiose e quasi ruggite. Merito della sua vocalità, duttile e potente, ma anche della capacità di attingere da un caleidoscopio di influenze che vanno dal rap al folk passando per il pop e l’hard rock (tra le sue principali fonti d'ispirazione, oltre a quelle citate in precedenza, vi sono anche il genialmente folle Frank Zappa, e James Hetfield dei Metallica). Le mutazioni schizoidi di registro di Serj possono avvicendarsi di brano in brano, ma anche più volte nella stessa canzone. Accade nel micidiale singolo “Chop Suey”, nella drammatica “Forest”, nonché in “ATWA”, una canzone che invoca il giusto processo negato a Charles Manson (per i SOAD la giustizia deve essere equa davvero per tutti) iniziando come una nenia per poi trasformarsi in ennesima, fragorosa sfuriata.
Come anticipato, la dimensione politica è importante nei testi di Tankian. Nato in Libano da genitori armeni, trasferitosi poi negli Stati Uniti, il frontman pone particolare attenzione nei suoi testi a problematiche tanto dell’America quanto del Medio Oriente. È anche un attivista: ha fondato nel 2002, poco dopo l’uscita di “Toxicity”, l’organizzazione no-profit Axis of Justice, assieme a Tom Morello dei Rage Against The Machine. Il tema centrale di molti suoi testi è la tragedia del genocidio subito dal popolo armeno durante la Grande Guerra. All’epoca di “Toxicity”, però, a ispirarlo era soprattutto il clima conflittuale vissuto negli Stati Uniti. “Deer Dance”, per esempio, è una critica alle cariche della polizia contro i manifestanti. “Chop Suey” attacca in maniera ironica l’ipocrisia della società nel giudicare le persone in base a come muoiono (per esempio, una brava persona, se morta per overdose di droghe, verrà ingiustamente screditata). “Science” è invece un j'accuse, forse ingenuo, alla scienza, che secondo Tankian trascura l’aspetto spirituale dell’esistenza umana (confrontare le differenze con “Biotech Is Godzilla” dei Sepultura, da cui è in parte ispirata).
Pochi giorni dopo la pubblicazione dell’album, il mondo sarà sconvolto dall’attentato dell’11 Settembre, che spingerà Tankian a scrivere un breve saggio, in cui sottolineerà come la politica delle ritorsioni e delle vendette avrebbe solo aumentato il numero di vittime. Intitolato “Una sobria analisi del fallimento delle politiche americane nel domare l’estremismo”, il testo sarà pubblicato anche sul sito del gruppo. L'episodio non sarà gradito dall’etichetta Sony, che farà rimuovere il saggio, accusando Tankian di giustificare il terrorismo. “All’epoca, nessuno voleva sentirlo dire - ha raccontato il frontman in un’intervista al Guardian (24 marzo 2021) - C’erano un sacco di bandiere agitate e un sacco di rabbia. Il gruppo mi chiamò e disse, ‘stai cercando di farci uccidere?’, io risposi ‘Ma è la verità!’, e loro: ‘Sappiamo che è la verità, ma a chi importa? Perché cerchi di farci ammazzare?’. Sono sempre stato ingenuo nel pensare che se qualcosa è vero, allora dovrebbe essere detto. Sono ancora così ingenuo.”
Come Malakian, che del disco rimane il principale compositore e produttore, ha sottolineato in diverse interviste dell’epoca, la svolta intrapresa con “Toxicity” nacque proprio dal desiderio di Tankian di mettersi ancora più in gioco rispetto a “System Of A Down”, di cantare di più. Conscia dello straripante talento espressivo del suo frontman, non priva di qualche dubbio (che portò a famose risse durante le sfiancanti sessioni di registrazione), la band accettò la scommessa, promettendosi però di non cedere un millimetro in termini di potenza di fuoco. Fu proprio quello che accadde: il disco è certamente più melodicamente abbordabile del suo predecessore, nei suoi momenti più distensivi addirittura canticchiabile, rimane però un brutale assalto metal.
Tankian comunque non è solo, e se il riffing di Malakian si nota maggiormente anche perché va di pari passo con la voce, come due facce della stessa medaglia, la sezione ritmica, pur assestandosi generalmente su dei semplici 4/4 (o talvolta alternando 7/8 a 8/8 in rapida successione, o con improvvisi stacchi), è da cardiopalma e non snatura o minimizza l’aggressività e l’impatto della miscela balistico-sonica. Dolmayan non è un batterista virtuoso, ma in quello che fa si rivela portentoso per il buon gusto e la perizia che dimostra nello scegliere attacchi trascinanti, accelerazioni repentine e controtempi micidiali. I suoi assi nella manica sono l’energia, il groove, il feeling. In tal senso sono particolarmente significative canzoni come “Needles”, “Jet Pilot”, “Forest” (con tanto di percussioni etniche), “X” o “ATWA”, tra gli episodi con maggiore carica dell’intero album, ma è come parlare di ciliegine sulla torta.
Impossibile non citare almeno un altro singolo: la title track. Possibilmente il brano dall’appeal melodico più elevato della band, ma non per questo scarico dal punto di vista balistico. Aperta da un arpeggio di chitarra dai sentori mediorientali, che si rivela poi l’innesco per una delle battaglie chitarristiche più avvincenti della partita, sfocia poi in una chiusura cupa e cadenzata che ricorda i Black Sabbath. La canzone è un collage lirico sul disfacimento della terra, un’apocalisse poetica di incendi e semi tossici indirizzata a chi crede di possedere il mondo, l’essere più insignificante e meschino di tutti: l’uomo.
Composto da brani mai sopra i quattro minuti di durata, spesso sotto i tre se non addirittura due, il disco non accusa mai momenti di stanchezza e proprio in chiusura sfodera i suoi colpi da maestro. Dopo la title track, infatti, arriva “Psycho”, con alcune delle melodie chitarristiche più ricercate ed emozionanti della discografia del gruppo. Ma ancora più incisiva è “Aerials”, la sintesi perfetta del sound di “Toxicity” nonché uno dei segreti del suo successo presso il grande pubblico: andamento epico, cupi arpeggi folk di chitarra, riff bassi e monolitici. Archi che volteggiano come foglie d’autunno aprono il brano, fornendo a Tankian la giusta tensione per esplodere in uno dei suoi canti più possenti e melodici. Le chitarre si rinforzano man mano, cadendo rovinosamente come una slavina. Trasposto in immagini dal sontuoso videoclip, il testo immagina un trapezista volteggiare nel cielo: quello che per gli adulti è un normale numero da circo, diventa per un adolescente disabile una totalizzante metafora di libertà.
Accanto alla furia energetica, quindi, non bisogna mai smettere di ribadirlo, c’è molto spazio per la melodia, pur composta con arrangiamenti atipici che si discostano dagli standard radiofonici, smontando e rimontando la forma-canzone come il gruppo preferisce. Se nel corso dell'album la melodia è enfatizzata soprattutto in episodi che rievocano i paesaggi del Caucaso e del vicino Oriente, la ciliegina sulla torta è a questo punto la conclusiva traccia-fantasma “Arto”, che inizia proprio dopo “Aerials”, a stupire per il suo amalgama di duduk (uno strumento a fiato armeno), percussioni folli e sonorità esotiche, al quale contribuisce il musicista turco di origine armena Arto Tunçboyaciyan (con cui poi Tankian realizzerà nel 2003 il progetto sperimentale Serart, ai confini tra elettronica, folk, ambient, art-rock e world music).
“Toxicity” esce il 4 settembre 2001, esattamente 7 giorni prima della tragedia di Ground Zero. Ma neanche il tragico accadimento newyorkese potrà fermarne la performance commerciale, anzi: l'urlo dei SOAD diverrà quello di molti giovani al cospetto di un mondo che scopriranno mai così vulnerabile e diviso.
Nonostante le succitate turbolenze, le sessioni di registrazioni furono parecchio prolifiche: oltre ai 15 brani poi finiti su “Toxicity”, ce n’erano altri 16, inizialmente scartati ma poi ri-registrati e raccolti, pochi mesi dopo, nel terzo disco del gruppo, dal satirico nome “Steal This Album!”.
Tre anni dopo la band pubblicherà altri due album, i gemelli “Mesmerize” e “Hypnotize”, sacrificando sì, questa volta, parte della sua durezza e cedendo notevolmente verso un sound più radiofonico. Pur contenendo qualche brano pregevole e numerose soluzioni interessanti, i due lavori non raggiungeranno mai le vette del capolavoro “Toxicity”. Forse proprio per questo i System Of A Down non produrranno più altri dischi.
FonteLife is a waterfall,
we’re one in the river
and one again after the fall.
Swimming through the void
we hear the word,
we lose ourselves but we find it all
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