Più di 80.000 manifestanti si sono radunati nelle strade di tutto Israele sabato sera per “denunciare i piani per indebolire la magistratura del paese”, scrive oggi il giornale israeliano Haaretz. I manifestanti chiedono le dimissioni di Netanyahu e in alcuni casi l’intervento dei governi occidentali su quello israeliano per farlo recedere dai suoi propositi.
Gli Stati sorti sul colonialismo d’insediamento, come sono Stati Uniti e Israele, combattono spesso con gli stessi fantasmi interni. Una volta “risolti” i problemi con le popolazioni native (lì i pellerossa, in Israele i palestinesi), le società coloniali vedono crescere la polarizzazione politica in un contesto di violenza fisiologica al modello coloniale.
Negli Usa il problema della liquidazione politica e materiale dei nativi è stato affrontato sanguinosamente nell’Ottocento. Israele invece deve ancora fare i conti con la Resistenza e la volontà di esistenza del popolo palestinese.
Ma sia gli Stati Uniti che Israele hanno visto precipitare vorticosamente le relazioni interne alle loro società, in cui solo piccole minoranze hanno mostrato nel tempo sensibilità sia per la democrazia che per la sorte delle popolazione native soppresse o ancora oppresse dal loro modello coloniale.
Intorno all’ascesa di Trump e nel violento scontro derivato dal rifiuto dei risultati elettorali che lo hanno rimosso dalla casa Bianca, negli Usa si è cominciato a parlare spesso di rischio di guerra civile. Il peggioramento della situazione economica, la polarizzazione politica e sociale e la totale delegittimazione dell’altro schieramento, hanno via via seminato nella società il demone dello scontro civile anche violento.
Da tempo lo stesso processo è in corso anche in Israele, dove la popolazione è stata chiamata alle elezioni ben cinque volte in soli tre anni, e dove oggi ha prevalso il “ritorno di Netanyahu” con un governo formato dalle componenti più estremiste del sionismo. Un pericolo per i palestinesi sicuramente, ma anche per l’idea di Israele come “unica democrazia” in Medio Oriente.
I partiti dei coloni e gli ultrasionisti al governo con Netanayahu non sono dissimili dall’estremismo politico e dal suprematismo conosciuti nel mondo occidentale. Inoltre la visione religiosa del sionismo politico rende questi gruppi niente affatto dissimili dagli jihadisti dell’Isis o di al-Qaida, sono solo di una religione diversa.
Si comprende dunque come il durissimo scontro politico interno in corso in Israele su alcune riforme costituzionali, contenga una carica di contrapposizione violenta che, se scatenata contro i palestinesi, non provoca troppi mal di pancia nella politica e nella società israeliana, ma se indirizzata o evocata contro altri pezzi della medesima società alimenta allarmi fin troppo dichiarati.
“Gli israeliani, come paese unito, hanno sconfitto ogni attacco e minaccia che hanno dovuto affrontare. Ma da qualche parte lungo il percorso, a causa di colpe sia a sinistra che a destra, hanno perso la loro unità contro la minaccia palestinese” scrive emblematicamente Fred Maroun, editorialista del Times of Israel – “Per se stessi e per la pace, devono sconfiggere la minaccia palestinese così come hanno sconfitto le altre, ma possono farlo solo se ritrovano la loro unità”.
Un sondaggio condotto dal Jewish People Policy Institute tra la popolazione israeliana ha rivelato che una percentuale significativa di israeliani teme un deterioramento nella violenza. Un terzo degli intervistati ritiene che esista una possibilità “alta o abbastanza alta” che la battaglia sulle riforme giudiziarie degeneri in violenza e disordini civili di massa.
In modo forse prevedibile, questa paura è più diffusa tra coloro che si oppongono alle riforme costituzionali del governo Netanyahu (44%) piuttosto che tra coloro che le sostengono (27%), probabilmente perché il senso di allarme e paura è più forte nell’opposizione che nei partiti di destra al governo.
Questi preoccupanti risultati possono essere spiegati dal fatto che tra tutti coloro che sono a conoscenza delle riforme in questione, la maggior parte vi si oppone (44%) contro il 41% che le sostiene. Inoltre, più di un terzo degli israeliani (37%) ritiene che il governo non abbia un mandato per varare un pacchetto di riforme di così vasta portata senza un ampio consenso della popolazione.
La pensa così anche una percentuale degli elettori di destra (31%), sebbene una quota simile ritenga invece che il governo abbia una base di legittimità per portare avanti le riforme anche se estremamente controverse e divisive.
Metà dell’opinione pubblica israeliana ritiene che oppositori e fautori delle riforme dovrebbero sedersi e parlare allo scopo di raggiungere punti di accordo. Il 58% dei contrari alle riforme è di questo avviso, ma anche il 43% dei sostenitori delle riforme si dichiara favorevole al dialogo.
Il sondaggio ha anche chiesto chi, secondo gli israeliani, dovrebbe svolgere un ruolo centrale nello sforzo di imporre un compromesso alle due parti che si scontrano sulla “rivoluzione costituzionale”.
Anche qui i risultati sono interessanti: se un terzo degli intervistati ritiene che è la Knesset che dovrebbe e presumibilmente potrebbe farlo, oltre un terzo ritiene che il soggetto più appropriato per guidare lo sforzo sia il presidente d’Israele Isaac Herzog, mentre il 39% ritiene che i più adatti al compito sarebbero esperti accademici e giuristi.
Le cinque tornate elettorali a cui gli israeliani sono stati sottoposti negli ultimi tre anni hanno intensificato e acuito la discordia interna alla società israeliana fino a livelli senza precedenti, se non nello scontro sul processo di pace con i palestinesi che portò all’omicidio di Rabin nel 1995.
Le controriforme giudiziarie promosse dal governo Netanyahu, mirano a cambiare il quadro costituzionale e la struttura di governo del paese – e con essa il carattere stesso dello Stato di Israele – ma vengono portate avanti nel contesto di una società già molto polarizzata.
Il ricorso da parte del governo ai suoi poteri nella massima misura possibile per introdurre cambiamenti così drammatici, in mezzo a profonde controversie, secondo le forze dell’opposizione israeliana mette in pericolo la tenuta e l’esistenza di Israele così come l’abbiamo conosciuta e di come è stata spacciata a livello internazionale.
I risultati del sondaggio del JPPI confermano i risultati di analoghi sondaggi. Secondo una ricerca pubblicata dall’Israel Democracy Institute, il 64% dell’opinione pubblica israeliana “è favorevole al dialogo tra i diversi schieramenti politici riguardo alle modifiche legislative proposte, allo scopo di arrivare a un compromesso”.
Ma da un lato, ci sono i sostenitori del “non si cede di un centimetro contro la riforma giudiziaria”, che appaiono spaventati per le sorti della democrazia in Israele e non sono disposti ad accettare il minimo compromesso.
Dall’altro, c’è un governo eletto di cui alcuni membri sono determinati a dare fondo a tutti i mezzi a loro disposizione pur di attuare le riforme che hanno in mente, e non sono disposti ad ascoltare obiezioni né a tentare di trovare un equilibrio tra le diverse posizioni. E molti temono la spirale negativa e che la violenza travolga il paese.
Di fronte alle proposte di mediazione con Netanyahu avanzate dagli ex primi ministri Gantz e Lapid, oggi all’opposizione, il Jerusalem Post riporta le dichiarazioni di Avigdor Liberman, leader di Yisrael Beytenu (partito di destra, ma di opposizione a Netanyahu, ndr), secondo cui “Non si può arrivare a nessun compromesso sulla riforma giudiziaria. Se dici che il governo vuole portarci a una dittatura al 100%, quindi che compromesso vuoi: una dittatura al 50%?!”.
Anche la leader dell’indebolito Partito Laburista, Merav Michaeli, ha criticato le proposte di compromesso affermando che: “Non ci sono compromessi sulla democrazia e non ci sono trattative con un imputato. Mi inquietano i messaggi che arrivano da Gantz e Lapid: questo è esattamente ciò a cui si oppongono i nostri manifestanti”.
Ovviamente tali preoccupazioni, al momento, non riguardano neanche lontanamente i rapporti di oppressione coloniale e di apartheid contro la popolazione palestinese, ma anche questo potrebbe essere un errore fatale per Israele.
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