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13/04/2023

[Contributo al dibattito] - Leggere Lazzarato a Pechino

Guerra o rivoluzione di Maurizio Lazzarato (DeriveApprodi 2022) è un libro capace di suscitare vivaci discussioni attorno alle sue ipotesi. In questo articolo Gabriele Battaglia analizza il rapporto tra macchina Stato-capitale e guerra a partire dalla complessità dell’esperienza cinese. Andando oltre il dibattito su che cosa ci sia di socialista in Cina, l’autore si interroga proprio sul nesso deterministico tra crescita e guerra, connubio che è stato ed è decisivo nel modello di egemonia americano, come il conflitto in Ucraina dimostra.

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Lunedì 28 marzo 2023, le cronache riportano che il più noto imprenditore cinese è ricomparso dopo oltre due anni nella natia Hangzhou provocando un brivido di eccitazione nei media e sui mercati. Jack Ma è il fondatore di Alibaba, la più grande azienda di e-commerce al mondo dopo Amazon. Figura leggendaria per le giovani generazioni cinesi, l’ex insegnante di inglese è uno di quegli imprenditori ispirazionali che assumono lo status di guru e fanno tendenza: nel 2017, al meeting annuale della sua azienda, si mise a danzare sul palco travestito da Michael Jackson, copiandone tutte le mossette, per il delirio delle masse. Da sempre brillante, scaltro, attento a non pestare i piedi sbagliati, propenso alle enunciazioni profetiche e perciò astratte, Jack Ma è sempre stato perfettamente in simbiosi con il Partito comunista, tant’è che nel 2015 Xi Jinping se lo portò in delegazione negli Usa. Tuttavia, nell’ottobre del 2020, l’imprenditore-guru si montò forse un po’ troppo la testa e definì pubblicamente «banco dei pegni» il sistema finanziario cinese incentrato sulle grandi banche di Stato. Dopo pochi giorni, in rapida successione, le autorità di controllo fecero saltare la collocazione del braccio finanziario di Alibaba – Ant o Alipay – alla borsa di Hong Kong e iniziarono un giro di vite non solo sul conglomerato dell’e-commerce, ma su tutte le grandi imprese tecnologiche cinesi e soprattutto sulle loro propaggini finanziarie. Dopo tutto, imprese IT e finanza online si erano espanse troppo e senza controllo, rischiavano di destabilizzare il sistema finanziario cinese, la regolamentazione era nell’aria.

Da quel momento, Jack Ma assume un bassissimo profilo, viaggia all’estero, fa la sua apparizione una volta in Olanda, dove sembra particolarmente interessato alla coltivazione dei tulipani e infine, due anni e mezzo dopo, rispunta in una scuola fondata da lui stesso medesimo a Hangzhou, dove annuncia l’avvento di «un’era digitale guidata da intelligenza, creatività, responsabilità e pensiero indipendente».

Al momento, su questo grande ritorno sono due le interpretazioni, che non si escludono a vicenda: Jack Ma fa da testimonial al governo cinese che intende tranquillizzare la comunità imprenditoriale e attirare gli investitori internazionali dopo i chiari di luna degli anni segnati dal Covid; Jack Ma annuncia l’avvento di un nuovo «balzo tecnologico», per cui tutta la Cina è chiamata a mobilitarsi.

L’imprenditore non può vivere senza Stato cinese e lo Stato ha bisogno dell’imprenditore.

La macchina Stato-capitale

Mai, come nel caso cinese, appare chiaro che stato e capitale sono due facce della stessa medaglia; e Guerra o rivoluzione (DeriveApprodi 2022), di Maurizio Lazzarato, è il libro necessario per i tempi che viviamo.

Partendo dal dilemma dell’ultimo Latour, che di fronte agli eventi ucraini non trovava più un filo conduttore e un nesso con la propria ecologia politica, Lazzarato ricompone guerra e devastazione ambientale come esito di un’era inaugurata dalla Grande guerra nel 1914, quando dopo l’illusione della Belle époque inizia la «distruzione assoluta» e quindi l’Antropocene. È in quel momento che, per la prima volta nella storia, si crea una mobilitazione e integrazione totale di Stato, economia, società, scienza e tecnica, lavoro – con la complicità dei partiti socialisti – per espandere la produzione finalizzata alla macchina da guerra: «produzione totale» determinata dalla «guerra totale». Produzione finalizzata alla distruzione. La Prima guerra mondiale sussume quindi l’intera società al capitale ed è lì che si gettano anche le premesse per quello sfruttamento al limite delle risorse che genera il degrado dell’ecosistema.

Con la mobilitazione generale si realizza per altro anche il general intellect concepito da Marx, perché la produzione non dipende più solo dal lavoro vivo strettamente inteso, bensì dalla cooperazione di tutta la società attraverso reti, relazioni. Solo che in Marx non c’è la guerra come esito, mentre nella realizzazione concreta del general intellect è proprio lo scontro tra imperialismi che completa e integra il tutto. È Lenin il primo a vedere che la produzione è sia sociale, sia finalizzata alla distruzione, in un capitalismo che si configura definitivamente come macchina Stato-capitale, dove i due termini si rapportano a geometrie variabili a seconda delle fasi: la violenza originaria che permette l’inizio di un ciclo di accumulazione è organizzata dallo Stato sotto forma di lotta di classe o guerra civile; il capitale gestisce poi una fase di «falsa pacificazione», come la parentesi neoliberale che abbiamo appena vissuto (ma attenzione, solo nel Nord globale, altrove la guerra continua o viene esportata); la guerra è l’esito inevitabile della contraddizione tra la tendenza del capitale a espandersi all’infinito e la natura dello Stato, che presuppone confini, conflitti, sovranità, nazionalismi, violenza organizzata, fascismi.

È qui che si colloca l’irruzione del Sud globale sulla scena del mondo – e quindi della Cina – che pone due problemi. Primo, il neocapitalismo adottato dalle ex colonie estende a tutto il mondo l’accoppiata produzione/distruzione, rendendo irreversibile la devastazione cominciata con la «grande accelerazione» del 1914; secondo, l’affermazione delle ex colonie, paradossalmente generata da quella globalizzazione che nelle intenzioni degli statunitensi doveva gettare le premesse per un «nuovo secolo americano», riaccende il conflitto tra imperialismi, che Washington progetta di trasformare in guerra aperta (perché è sul piano militare, oltre che sull’egemonia del dollaro, che può ancora esercitare dominio).

E qui siamo già in Ucraina, siamo all’allargamento a est della Nato, al tentativo di «contenimento» della Cina. Illuminante è per altro l’osservazione di Lazzarato a proposito del «divenire fascista» di un’opinione pubblica europea trascinata nella nuova crociata, fenomeno a cui assistiamo quotidianamente sui cosiddetti «media indipendenti» euroatlantici e subiamo anche intellettualmente ed emotivamente come ennesima violenza. Una lunga lista di scrittori postcoloniali – da Franz Fanon a Samir Amin, passando per la letteratura di Amitav Ghosh – parlerebbero forse di orgoglio ferito del colonialista. Del resto, il fascismo non è anche il vittimismo aggressivo del più forte?

Il grande altro cinese

Dunque la Cina. Questo grande altro dove il capitalismo in quanto macchina Stato-capitale si caratterizza perfettamente come in una rappresentazione teatrale e che è al tempo stesso sia ex colonia – colonia di tutti, verrebbe da dire – sia civiltà da sempre a vocazione imperiale (attenzione, non necessariamente imperialista), concorrerà inevitabilmente alla «trappola di Tucidide» che gli statunitensi cercano di evitare anticipando i tempi della guerra? È l’ennesima macchina Stato-capitale che aspetta solo il momento giusto per colpire a sua volta? Questo concetto è stato ribadito recentemente da Maurizio Lazzarato in un’intervista per il podcast Il Cielo Sopra Pechino (piccolo spot). Per lui, apparentemente, è solo questione di tempo: anche la Cina prima o poi scatenerà una guerra, quando si sentirà abbastanza forte e sempre che non abbiano già provveduto gli Usa.

Non ne sono così sicuro. È una visione troppo determinista.

Quando in Italia partecipo a incontri pubblici incentrati sulla Cina, arriva sempre la domanda: «Cosa c’è ancora di socialista in Cina?». Di solito rispondo ragionando a voce alta sulla forte presenza dello Stato, sulla ragion politica che domina sul capitale, sul patto non scritto tra imperatore e popolazione – e poi tra Partito e masse – per cui il potere si giustifica solo se rende benefici a tutti, sul volontarismo rivoluzionario che a partire dal 1978 si trasferisce nell’energia delle forze ctonie del mercato, sull’avanguardia rivoluzionaria e sulla mobilitazione di massa come strategia di fronte alle emergenze.

Ribaltando il quesito – la Cina è capitalista? – di recente, mi è capitato di intervistare l’economista della diseguaglianza Branko Milanovic, che ha riaffermato quanto già scritto in Capitalismo contro capitalismo (Laterza): «Per essere capitalista, una società deve essere tale per cui la maggior parte della produzione viene condotta utilizzando mezzi di produzione privati (capitale, terra), la maggior parte dei lavoratori sono salariati (non devono essere legalmente legati alla terra né lavorare in maniera autonoma utilizzando il proprio capitale), e la maggior parte delle decisioni sulla produzione e sui prezzi sono prese in modo decentralizzato (cioè senza che nessuno le imponga alle imprese). La Cina è decisamente capitalistica su tutti e tre i fronti».

Accettiamo senz’altro questa definizione e chiediamoci allora se il capitalismo cinese implichi un imperialismo simile a quello statunitense oppure no. Giovanni Arrighi ha a suo tempo ben argomentato in Adam Smith a Pechino che la «pacifica ascesa» cinese richiede un mondo di stabilità e non di caos, sarebbe troppo lungo argomentare qui come questo abbia a che fare con un percorso di lungo periodo che nasce da un modello di sviluppo agrario contrapposto a quello mercantilista.

Questa macchina Stato-capitale di nome Cina continua a investire nel comparto militare molto meno di quanto facciano gli Usa, sebbene la sua forza non sia al momento paragonabile a quella del «concorrente strategico» (definizione statunitense e non cinese). All’ultimo Lianghui – la doppia sessione annuale dei parlamenti cinesi – l’aumento del budget militare per il 2023 è stato posto al 7,2%, più o meno come l’anno scorso (7,1), ed è dal 2016 che le spese per esercito e armamenti crescono a cifre singola. In compenso, sono stati decisi una crescita del 12% per l’attività diplomatica – cioè la presenza della Cina nel mondo – che l’anno scorso era cresciuta solo del 2%; e del 6% nella pubblica sicurezza – l’anno scorso era solo del 4 – che rivela un’attenzione particolare nel controllo/repressione interno.

Se consideriamo le portaerei, cioè il dispositivo principe per una proiezione militare all’esterno, la Cina ne ha tre, di cui forse solo una è al momento in grado di operare. Certo, il programma portaerei della Cina conferma l’intento di ampliare il bacino operativo delle forze armate, dalle acque regionali dei «mari vicini» ai «mari lontani» (yuanhai). Ma per fare cosa? Se consideriamo le basi militari all’estero, alle circa 800 degli Usa si contrappone l’unica base cinese inaugurata a Gibuti, nel 2017, per controllare gli approvvigionamenti che passano attraverso il golfo di Aden e soprattutto in funzione anti pirateria e nel quadro di operazioni internazionali.

Solo questione di tempo oppure siamo di fronte proprio a un altro modello?

Sintetizzando: per la Cina, la pace è un prerequisito della crescita; la guerra invece è caos, distruzione, miseria diffusa.

Pace cinese?

Consideriamo allora l’attività diplomatica, in particolare rispetto alla guerra in Ucraina. Il 24 febbraio, nell’anniversario dell’invasione russa, la Cina ha presentato nero su bianco la propria posizione in 12 punti per una «soluzione politica», che sui media occidentali è stata definita frettolosamente «proposta di pace», ma che tale non è: si tratta appunto di una «posizione» e, per dirla tutta, è la stessa che la Cina ha mantenuto dal 25 febbraio 2022, cioè da quando il ministero degli esteri di Pechino si espresse per la prima volta sulla «operazione militare speciale» appena cominciata. Pochi giorni prima, Pechino aveva diffuso un «documento concettuale sull’Iniziativa di sicurezza globale» che sistematizzava in senso più generale alcuni dei principi presenti nella «posizione» (l’Iniziativa di sicurezza globale è uno slogan lanciato da Xi Jinping nel 2022 che getta le basi per quel mondo multipolare così caro sia a lui sia a Putin). Chiamiamolo documento di programma.

Il senso della «pace cinese» è che, quando un conflitto non sembra risolvibile, per amor di pace bisogna congelare la situazione sul campo così com’è, facendo quindi e soprattutto tacere le armi. Poi i negoziati possono durare mesi oppure anni, ma intanto non muore nessuno. In Asia – va detto – ogni tanto una non-soluzione è già una soluzione e Pechino – con Delhi – applica già questa tipologia nelle reciproche schermaglie himalayane scaturite dalla guerra del 1963, per tacere del tormentone Taiwan, in cui un sostanziale status quo pende ciclicamente da una parte o dall’altra con tanta enfasi mediatica e nessuna conseguenza reale, almeno finché qualcuna delle forze in campo – Cina, Taiwan, Usa – non deciderà di superare qualche linea rossa. La posizione cinese sembrerebbe dunque una «soluzione coreana», in riferimento all’armistizio che nel 1953 mise fine alla guerra di Corea anche se in seguito non c’è mai stata una vera pace. La Cina ribadisce alcuni principi: rispetto della sovranità territoriale di ogni paese – quindi anche dell’Ucraina – ma fine della cosiddetta «mentalità da guerra fredda», cioè la politica statunitense dei blocchi contrapposti, ovvero l’espansione della Nato a Oriente. Questo è ciò che va discusso con calma perché una cosa si lega all’altra, sono indissolubili, una non può essere la precondizione dell’altra. Nel frattempo si sospenda la guerra e si avviino colloqui di pace, mentre si ricostruisce l’Ucraina con una pioggia di investimenti, si tutela la vita dei suoi abitanti e si tiene in piedi la filiera globale. E quindi si metta anche fine alle sanzioni, una politica che Pechino non ha mai digerito e la Russia neppure. Poi chissà, tra qualche anno il benessere farà mutare le circostanze e la guerra non sarà più un’opzione, così come la questione territoriale. Non si sa quanto a Pechino si aspettassero che la loro «posizione» venisse presa in considerazione – e infatti è stata preventivamente liquidata dagli Usa – ma l’alternativa è la guerra senza fine.

Qui, va rimarcato che la «posizione cinese» si discosta da quella occidentale perché considera di fatto i propositi di allargamento della Nato a Oriente un atto ostile al pari dell’invasione russa. Di conseguenza, bisogna sì rispettare l’integrità territoriale, ma anche prendere in considerazione le «legittime preoccupazioni» del tuo vicino. Tu non puoi ottimizzare la tua sicurezza se questo va a scapito della sicurezza – o della percezione di sicurezza – altrui.

Questa è una vera e propria ipotesi di pace post-westfaliana – ancorché embrionale – e arriva da Oriente: ogni Stato-nazione non ha il diritto di ottimizzare la propria sicurezza fino a limiti sanciti dal diritto internazionale, un diritto creato in un ben preciso momento storico e nel quadro di ben precisi rapporti di forza, poi puntualmente disatteso dalla potenza dominante. Bisogna invece porsi dei limiti in partenza, assumere su di sé l’impegno a non «preoccupare» il vicino.

Ciò che importa sottolineare è che l’approccio cinese sembra discendere non solo da interessi e circostanze del momento – che pure ci sono, in primis la partnership necessaria con la Russia nel quadro delle attuali tensioni internazionali – ma da un pensiero che arriva da lontano, lontanissimo.

Zhao Tinyang, filosofo politico, professore all’Accademia cinese di scienze sociali di Pechino, ha rielaborato in anni recenti un modello politico che reggeva la Cina tremila anni fa, ai tempi della dinastia Zhou: quello del Tianxia, ovvero «tutto sotto il cielo» (di Zhao è accessibile in inglese il libro All Under Heaven: the Tianxia system for a possible world order, University of California Press).

Il Nuovo Tianxia di Zhao presuppone tre principi o concetti: l’internalizzazione del mondo. Tutto il mondo diventa un problema interno, non esiste più l’esterno. «Questo risolve un vecchio problema spinoso delle scienze politiche ed economiche, il ritenere che tutte le sfide e le difficoltà derivino da negatività esterne. Se tutto viene internalizzato, non esistono più negatività esterne. Rimangono le contraddizioni, ma del tipo che Mao chiamava le contraddizioni all’interno del popolo. Se le contraddizioni nei confronti del nemico si possono trasformare in contraddizioni interne sono più facilmente risolvibili, senza per questo negarle», ci ha detto Zhao in una recente intervista.

Poi c’è la razionalità relazionale – contrapposta alla razionalità individuale dell’Occidente – secondo cui la minimizzazione dei danni reciproci deve avere la priorità sulla massimizzazione degli interessi di parte. Infine c’è il miglioramento confuciano, che si ispira al miglioramento paretano (di Vilfredo Pareto), secondo cui va bene il miglioramento individuale che non incide sulla condizione degli altri perché, aritmeticamente parlando, determina comunque un aumento dell’efficienza complessiva del sistema. Il miglioramento confuciano di Zhao considera positivo il miglioramento della condizione economica di un individuo solo se questo ingenera anche un miglioramento della condizione degli altri, non basta il «non peggioramento» della situazione altrui. «Io invece penso in termini psicologici», ci ha detto Zhao. «Non possiamo essere contenti se Elon Musk si arricchisce ogni giorno di più mentre noi restiamo fermi dove siamo. Penso che la sola matematica non basti. Se una società diventa ricca, ogni suo membro deve essere coinvolto, anche se in diversa misura, in questo arricchimento».

Si tratta di un approccio morale invece che legale alle relazioni internazionali – con tutto ciò che comporta in positivo e negativo – ma è indubbio che sulla base di questi tre principi non ci sarebbe mai stata una «Nato globale» e quindi, probabilmente, una guerra in Ucraina.

La leadership cinese si ispira a questi principi? Sicuramente, oltre che nell’elaborazione recente di una pace possibile, si trovano degli indizi di teoria del Tianxia in alcune costanti della politica cinese sia interna che esterna. Cito ad esempio il mantra del rapporto «win-win» (in cui vincono tutti) e il principio di non intromissione (quindi di non espansione del proprio modello/interesse) nelle relazioni internazionali; in politica interna, il patto non scritto tra governante e governati, per cui l’esclusiva del potere deve essere a beneficio di tutti, oppure il freno politico posto a quei settori dell’economia che sembrano espandersi troppo, destabilizzando l’economia.

Proprio come nel caso del Jack Ma da cui eravamo partiti.

Siamo lì, attraversiamo il fiume tastando le pietre – come diceva Deng Xiaoping – osserviamo senza essere troppo sicuri delle conclusioni, ma ci sentiamo di dire che la Cina potrebbe (condizionale d’obbligo) scompaginare un modello eccessivamente deterministico per cui il capitalismo, a partire dal 1914, produce inevitabilmente guerra. Ferma restando la violenza intrinseca al capitalismo stesso e la contraddizione rappresentata dalla sua pretesa di infinita espansione.

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