Si è conclusa ieri la settimana di viaggio di Kamala Harris, in Africa. La vicepresidente degli Stati Uniti ha visitato Ghana, Tanzania e Zambia, in una missione diplomatica che è esemplificativa del tentativo di Washington di fermare qualsiasi possibilità di sviluppo di un mondo multipolare.
L’Africa sarà del resto uno dei principali «campi di battaglia» delle grandi potenze della competizione globale. E per ammissione degli stessi funzionari a stelle e strisce la precedente amministrazione l’aveva dimenticata, mentre con la Harris siamo arrivati a 18 esponenti statunitense recatisi in 11 diversi paesi del continente dall’inizio del 2023.
La grande attenzione rivolta all’Africa in pochi mesi è la conseguenza del U.S. – Africa Leaders Summit svoltosi tra il 13 e il 15 dicembre dello scorso anno. In quel consesso Biden ha promesso investimenti per 55 miliardi di dollari in tre anni dall’altra parte dell’Atlantico, e accordi commerciali specifici con l’area di libero scambio che lì va formandosi.
La Harris ha infatti fatto dichiarazioni che, tradotte in cifre, significano miliardi di investimenti pubblico-privati per contrastare il cambiamento climatico e l’emancipazione delle donne. Sono stati annunciati aiuti per 100 milioni di dollari per i paesi che si affacciano sul Golfo di Guinea per la lotta all’estremismo islamico e all’instabilità.
Dietro questa scelta vi sono motivazioni ben poco umanitarie in realtà. La zona è da tempo vista dalla Cina come un terminale della sua proiezione militare: l’ipotesi di una base in Guinea Equatoriale è stato oggetto di una lunga trattativa. Non è un caso che anche gli USA stiano pensando di insediare un Africa Command sulla costa occidentale del continente.
Non è stato reso pubblico il luogo, ma la Liberia, che vanta storici legami con la Casa Bianca, è tra le possibilità più gettonate. Poco dopo l’annuncio, il presidente liberiano che in Italia conosciamo bene, l’ex calciatore George Weah, ha visitato il quartier generale della CIA in Virginia, rendendo le voci molto più concrete.
Bisogna poi ricordare che i paesi dell’area sono a contatto con la fascia del Sahel, dove Mali e Burkina Faso in particolare hanno vissuto rivolgimenti politici che hanno allontanato i governi locali dall’Occidente. Lì è più forte la presenza russa e cinese, che si stanno rafforzando accordo dopo accordo.
Il tentativo di Washington di ridimensionare i rivali in Africa si è dispiegato in questi giorni su vari ambiti. La Harris ha annunciato per il Ghana 139 milioni di assistenza fiscale nell’anno 2024, per far fronte ai problemi che, così come lo Zambia, sta vivendo a livello di finanze pubbliche.
Entrambi i paesi hanno sostanziosi debiti con la Cina, e il Ghana sta per esempio cercando di ristrutturarlo. Uguale lo Zambia, sul cui dossier Pechino ha subito accuse da parte degli Stati Uniti per ipotetici tentativi di ritardare i lavori in merito, stabiliti nel quadro comune del G20.
La Cina vorrebbe che anche altri attori internazionali e in particolare la Banca Mondiale fossero parte dei futuri accordi, qualunque essi siano. Il suo presidente sembra aver dato una risposta proprio domenica, quando ha espresso preoccupazione per i prestiti di Pechino ai paesi in via di sviluppo dell’Africa.
L’ipocrisia e la poca credibilità del vertice dell’istituto bancario, tra gli strumenti dello scricchiolante dominio globale statunitense, sono nelle sue stesse parole: ammette candidamente che tanti prestiti occidentali e della Banca Mondiale stessa non sono stati fatti con l’intento di fare il bene delle popolazioni locali.
Fred M’membe, leader del Partito Socialista dello Zambia, ha detto che “non è la democrazia e i diritti umani che [gli USA] stanno perseguendo in Africa. Stanno perseguendo i loro interessi geopolitici”. Proprio in Zambia, così come nella Repubblica democratica del Congo e in Tanzania, sono i colossi cinesi a gestire la maggior parte delle esportazioni.
Parliamo di paesi dove si concentrano parti consistenti delle riserve mondiali di coltan e cobalto, fondamentali per l’elettronica e per le batterie moderne. Difatti, nel gennaio di quest’anno l’amministrazione Biden ha firmato un memorandum con Congo e Zambia per sviluppare filiere locali e indebolire il legame con il Dragone.
Anche se ovviamente questa mossa può essere un gravoso bastone tra le ruote, non bisogna dimenticare che il volume del commercio tra Africa e Cina è cinque volte superiore a quello tra il continente e Washington. Né il Global Gateway europeo sembra poter attirare gli interessi infrastrutturali africani come i progetti cinesi.
La Cina sta infatti puntando molto nello sviluppo della rete sottomarina di cavi e le offerte di Huawei per investire nel continente sembrano assicurare ulteriore consenso al governo di Xi Jinping. Per questi motivi il Pentagono teme per la propria sicurezza informatica quando i propri militari, presenti in più della metà dei paesi africani, intrattengono relazioni coi locali.
Ma l’autonomia mostrata rispetto allo Zio Sam deriva anche dalla poca fiducia riposta negli Stati Uniti. Durante le votazioni ONU di condanna dell’intervento russo in Ucraina, molti paesi africani si sono astenuti, non sentendo la necessità di condannare un’escalation che affonda le radici in un conflitto complesso che va avanti da anni, con gravi responsabilità occidentali.
Queste prese di posizioni squisitamente politiche hanno una funzione concretamente antimperialista. Il figlio del presidente dell’Uganda si è spinto a dire che dovrebbero inviare truppe a Mosca, se venisse attaccata, mentre sempre M’membe ha ricordato i tanti capi di stato uccisi in colpi di stato orchestrati al di là dell’Atlantico.
Anche la UE sta guardando con sempre più insistenza all’Africa, soprattutto alla sua parte settentrionale, ma la rottura del giogo neocoloniale francese in Mali e in Burkina Faso ha reso le cose ancora più complicate per l’asse euroatlantico. Mentre le guerre e le multinazionali occidentali continuano a creare le condizioni per un aumento dei flussi migratori, mettendo in crisi le politiche europee sul tema, altro che Wagner.
Gli USA, di fronte a questa situazione, possono solo sperare di difendere i propri interessi principali e giocarsi la competizione con la Cina, sperando di risultare più attrattivi. Ma se i paesi africani oggi hanno qualche opportunità di sganciarsi dall’imperialismo, le devono proprio allo sviluppo di un mondo multipolare.
È difficile immaginarsi che la vittima si ributti tra le braccia del suo aguzzino, mentre purtroppo è molto facile immaginarsi che l’aguzzino, esasperato, sfoderi tutta la sua forza. E con gli Stati Uniti il pericolo è una guerra generale e generalizzata.
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