Eccolo l’Isis temuto, nel cuore del Mediterraneo, molto più che Bengasi e Derna. A un passo dall’Italia che è Lampedusa, ma anche la Roma eterna su cui la propaganda del Daesh fa sventolare la minacciosa ombra del suo stendardo nero. Nell’attentato di Tunisi, venti vittime più due jihadisti, il bersaglio è chiarissimo: l’attività turistica. La scelta d’introdursi nel Museo del Bardo, dopo aver cercato un gesto clamoroso solo cento metri più in là nel Parlamento, sembra non essere un ripiego ma un chiaro obiettivo che può mettere in ginocchio le economie di molte nazioni maghrebine e mediorientali. La Libia non ha più turisti, e ora neppure lavoratori stranieri, dai tempi della caduta di Gheddafi. L’Egitto dopo i ridimensionamenti subìti dai tour operator negli ultimi quattro anni vede nella via delle bombe urbane e nell’incontrollabilità del Sinai un serio problema per una ripresa economica che ha nel turismo la seconda risorsa nazionale. E non parliamo delle condizioni di Siria e Iraq dove la guerra è aperta e questo genere di viaggi legati alla cultura sono interdetti da tempo. Se gli uomini di Al Baghdadi, e tutti i fondamentalisti che in varie aree a lui s’ispirano e si legano, vogliono creare fratture oltre che paure punteranno a tener lontane le masse itineranti nei musei e luoghi archeologici.
Contro i quali già lo Stato Islamico aveva scatenato il proprio piccone demolitore, diffondendo le sciagurate immagini distruttive di statue nel museo di Mosul e gli attacchi con le ruspe contro le mura di Ninive e le vestigia di Hatra. Voglia di azzerare il passato, giustificate con la lotta all’idolatria che fu anche dei talebani, ma oltre alla fobìa della diversità, all’incurante ignoranza che soprassiede una diabolica follìa, c’è un disegno razionale e ideologico al tempo stesso. Abbiamo detto: colpire il turismo significa attaccare le casse di governi ritenuti nemici, nei luoghi propri e in quelli degli avversari. Se bombe scoppiassero e raid avvenissero in metropoli europee, com’è accaduto ai tempi di Al Qaeda e di recente nella redazione di Charlie Hebdo e dintorni, anche l’economia turistica occidentale ne sarebbe piegata. Impedire ai torpedoni di visitatori e ai vacanzieri delle agenzie di viaggio l’ingresso nelle nazioni su cui il fondamentalismo, del Califfato o altro, allunga mani e pensieri interdice quei contatti che rendono variegata e meno isolata la vita in quelle terre. Introduce il cordone sanitario del terrore fra chi potrebbe arrivare e non arriva più come un disegno ben studiato, e comunque già provato (pensiamo a Luxor nel 1997 e alla stessa Djerba nel 2002). Che in una prima fase paga.
Naturalmente spacca la società civile di quei luoghi, ricevendo il rifiuto di componenti laiche ben presenti e organizzate in nazioni come la Tunisia oppure votate a rimettersi al piano securitario dell’uomo forte come l’attuale Egitto. Trova un netto rifiuto e una potenziale diga in costoro, diga che potrebbe essere ben più solida se coinvolgesse anche l’Islam politico tenuto ai margini o peggio demonizzato con la teoria che una parte di esso mai e poi mai potrà manifestarsi come moderato. Nel caso in cui il blocco conservatore di Essebsi in Tunisia e ancor più il golpismo mascherato di Al Sisi in Egitto ricalchino le satrapiche strade di chi li ha preceduti, può trovare spazio il richiamo ideologico antioccidentale del Califfato. Che astutamente fa leva anche su certe verità: l’evidentissimo sfruttamento da colonalismo di ritorno che si perpetua su quei territori e sui suoi abitanti. Un’infinità di giovani tunisini (ne sono stati calcolati dai tremila ai cinquemila) hanno ingrossato nei mesi scorsi le fila dell’Isis proprio a seguito di questa propaganda e del fatto che tanti di loro non conoscono un presente migliore di quello che portò Bouazizi all’autodafé. E’ una riflessione che tutte le leadership che vogliono combattere l’Isis sono obbligate a fare.
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