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15/06/2015

Burundi - L'ombra del conflitto etnico

di Sonia Grieco

La crisi politica in Burundi rischia di precipitare in una guerra civile che potrebbe destabilizzare l’intera regione, a iniziare dal vicino Rwanda, dove si sono rifugiate decine di migliaia di persone. A lanciare l’allarme, tra gli altri, è stato Salim Ahmed Salim, l’ex segretario generale di quella che fu l’Organizzazione dell’unità africana poi diventata l’Unione Africana che in questi giorni si riunisce in Sud Africa e che in cima all’agenda ha proprio la questione Burundi.

Dalla fine di aprile il Paese è teatro di proteste, spesso sfociate in scontri (una quarantina i morti), contro la decisione del presidente Pierre Nkurunziza di imporre la sua terza candidatura, nonostante il limite costituzionale dei mandati sia di due. La risposta del governo alle manifestazioni è stata la repressione: decine di arresti, spari sui dimostranti, stretta sui mezzi d’informazione, con la chiusura di radio indipendenti e restrizioni su internet. Inoltre, milizie pro-governative seminano paura tra la popolazione. Il dialogo nazionale è fallito dopo che il leader del partito di opposizione Unione per la Pace e lo Sviluppo (UPF), Zedi Feruzi, è stato ucciso in un agguato nella capitale Bujumbura a fine maggio. Ma la repressione non è bastata a fermare l’opposizione che continua a scendere in piazza e a chiedere al presidente di farsi da parte.

In questo clima i burundesi sono chiamati alle urne nelle prossime settimane. Nkurunziza non vuole mollare e punta al voto che, però, è stato costretto a posticipare due volte. Adesso le presidenziali sono state fissate per il 15 luglio, mentre le politiche e le amministrative si terranno il 29 giugno. L’opposizione ha già annunciato il boicottaggio, secondo cui un voto in questa situazione non può svolgersi in maniera trasparente e libera. Non si escludono ulteriori rinvii, se gli Stati africani faranno altre pressioni, preoccupati che la crisi sfoci in un conflitto di dimensioni etniche, come quello che ha segnato il Paese negli anni Novanta.

Secondo Devon Curtis, della Cambridge University, “il conflitto al momento è sostanzialmente politico. Gli Hutu e i Tutsi si sono schierati da entrambe le parti”. Tuttavia, avverte, la dimensione etnica potrebbe assumere un peso sempre più rilevante. E alcuni ritengono che le cose potrebbero precipitare, se il Rwanda utilizzasse il pericolo di instabilità per giustificare un intervento in Bururndi. In Rwanda, infatti, sarebbero presenti milizie vicine al sia partito di governo burundese sia agli Hutu del FDLR, esecutori del genocidio del 1994, allora fuggiti nella Repubblica democratica del Congo. Milizie che avrebbero già compiuto rapimenti, torture e omicidi in queste settimane.

Le proteste contro la pretesa di Nkurunziza di restare alla guida del Burundi, potrebbero quindi tingersi di quell’odio etnico che costò la vita di centinaia di migliaia di persone (alcuni dicono 800mila, altri 500mila), massacrate a colpi di machete nel giro di cento giorni. Una ferita ancora aperta, che spinge migliaia di persone a fuggire dal Burundi, in maggioranza rifugiatesi in Tanzania, dove l’accoglienza dei profughi sta determinando un’emergenza umanitaria. Secondo Save the Children, 2.300 bambini sono fuggiti senza i genitori, rimasti a proteggere case e terre in Burundi. In totale, sono almeno 96mila i profughi riparati in Rwanda, Tanzania, Uganda e Repubblica democratica del Congo, e in maggioranza sono minorenni.

Intanto, la crisi politica sta avendo ripercussioni altrettanto pericolose sull’economia del Burundi, che si regge sugli aiuti stranieri. Senza le donazioni dall’estero, sarà difficile anche mettere in piedi la macchina elettorale. Al momento, però, Nkurunziza non sembra preoccupato da queste questioni né dal rischio di un conflitto civile. La speranza è riposta nel summit sudafricano.

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