di Michele Paris
Il governo degli Stati Uniti ha deciso mercoledì un nuovo aumento del proprio impegno militare in Iraq per cercare di mettere in atto una strategia efficace nella guerra combattuta ufficialmente contro lo Stato Islamico (ISIS). La notizia era rimbalzata già martedì sui giornali d’oltreoceano ed era stata anticipata dallo stesso presidente Obama durante il vertice dei G-7 conclusosi lunedì in Germania, dove aveva ammesso l’assenza di una “strategia americana d’insieme” nel paese mediorientale.
A distanza di un anno dalla clamorosa conquista della città di Mosul per mano dell’ISIS, l’organizzazione fondamentalista ha infatti ampliato la porzione di territorio nelle proprie mani sia in Iraq che in Siria, mentre le bombe “mirate” della coalizione guidata da Washington hanno fatto ben poco per arrestare il ritmo di reclutamento di nuovi combattenti.
Un nuovo campanello d’allarme per gli Stati Uniti e il governo di Baghdad era suonato lo scorso mese di maggio, quando gli uomini dell’ISIS erano entrati a Ramadi, la capitale della provincia occidentale di Anbar a poche decine di chilometri da Baghdad. Qui, le forze dell’esercito regolare iracheno si erano sciolte ancora una volta come neve al sole, rivelando la totale inefficacia del programma di addestramento e sostegno delle forze armate da parte degli USA.
L’amministrazione Obama e, in particolare, il segretario alla Difesa, Ashton Carter, aveva successivamente attribuito la colpa della caduta di Ramadi e dell’avanzata dell’ISIS esclusivamente alla disorganizzazione e alla scarsa volontà di combattere dei soldati iracheni, senza assumersi alcuna responsabilità per il fallimento di un’operazione militare a cui partecipano svariati paesi.
In ogni caso, la necessità di assistere il governo dell’Iraq nel tentativo di riconquistare il territorio nelle mani dell’ISIS è ancora la giustificazione per la nuova escalation militare che si preannuncia. Washington intende occupare una nuova base militare nella provincia di Anbar, mentre nel paese giungeranno altri 450 soldati, tutti rigorosamente con l’incarico esclusivo di “addestrare” le truppe indigene.
Gli Stati Uniti hanno già più di tremila uomini in Iraq e, pur non essendo state loro attribuite funzioni di combattimento, risulta difficile credere che dietro alla strategia di Obama non vi sia uno sforzo per tornare in qualche modo a occupare questo paese, spostatosi sempre più sotto l’influenza iraniana dopo il ritiro della maggior parte delle truppe americane alla fine del 2011.
L’obiettivo immediato degli USA sarebbe quello di lanciare una campagna a breve per la riconquista di Ramadi, rimandando invece le operazioni relative a Mosul al prossimo anno. A questo scopo, ufficiali americani avevano operato una serie di sopralluoghi in basi militari nella provincia di Anbar, dove saranno appunto inviati i nuovi “addestratori”.
In questa stessa provincia ci sono peraltro già 300 marines americani, impegnati ad assistere le forze tribali sunnite che combattono contro l’ISIS. Nell’area, però, sono presenti anche alcune milizie sciite, sostenute dall’Iran, e non è chiaro se, come in altre precedenti occasioni, queste ultime saranno evacuate in seguito all’arrivo degli americani. Le milizie sciite, va ricordato, hanno rappresentato finora l’unica forza in grado di combattere con una certa efficacia contro l’ISIS in Iraq.
Il lancio di una nuova strategia USA è comunque la conseguenza dell’esito registrato finora di una campagna caratterizzata da ambiguità e contraddizioni, su cui si innestano oltretutto le pressioni contrastanti delle varie sezioni della classe dirigente americana in relazione alla promozione degli interessi di Washington in Medio Oriente.
Per il New York Times, ad esempio, i vertici del Comando Centrale USA con competenza sul Medio Oriente, vedevano come prioritario un intervento contro l’ISIS nella città di Mosul, mentre il Dipartimento di Stato ritiene fondamentale un concentramento degli sforzi nella provincia di Anbar, anche perché essa confina con due importanti alleati come l’Arabia Saudita e la Giordania.
Lo stesso capo di Stato Maggiore, generale Martin Dempsey, qualche settimana fa aveva affermato che la sorte di Ramadi, capitale della provincia di Anbar, non era determinante per il futuro dell’Iraq. Sempre Dempsey, poi, nella giornata di martedì nel corso di una visita in Israele ha avvertito che “non ci saranno cambiamenti radicali” alla strategia americana anti-ISIS.
La politica irachena e relativa all’ISIS degli Stati Uniti è ad ogni modo difficile da decifrare, risultando spesso agli occhi degli osservatori del tutto incoerente. Da un lato, l’amministrazione Obama teme realmente che i fondamentalisti possano travolgere il governo di Baghdad ma, allo stesso tempo, la loro presenza sta consentendo il ritorno in Iraq di migliaia di truppe americane.
L’avanzata dell’ISIS ha inoltre spaccato ancora una volta l’Iraq lungo le linee settarie, facendo in qualche modo gli interessi proprio degli Stati Uniti, i quali vedono da tempo con un certo favore il disgregamento dell’unità di questo paese in funzione di contenimento dell’influenza iraniana.
Una reale guerra contro l’ISIS sarebbe quindi controproducente per gli obiettivi americani, tanto più che, nonostante la retorica ufficiale, le forze del “califfo” Al-Baghdadi continuano a svolgere efficacemente il ruolo di forza d’urto contro il regime di Assad in Siria, la cui deposizione rimane l’obiettivo primario degli Stati Uniti e dei loro alleati nella regione.
In questo scenario caotico, quel che appare certo è che i rinforzi americani che giungeranno in Iraq non attenueranno in nessun modo il livello di conflitto attuale ma contribuiranno anzi ad alimentare un clima di violenza la cui responsabilità è da attribuire principalmente proprio al governo di Washington.
Oltre alle forze USA, poi, altri paesi alleati hanno già annunciato l’invio a Baghdad di propri soldati “istruttori”, come la Gran Bretagna o la stessa Italia, a cui dovrebbe essere assegnato un compito di primo piano nell’addestramento della polizia irachena.
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