Dopo 32 anni Fatah torna a Damasco. Secondo quanto riportato ieri dal
funzionario del partito palestinese, Abbas Zaki, a breve saranno
riallacciate relazioni ufficiali con il governo siriano, definitivamente
interrotte l’anno dopo l’invasione israeliana del Libano nel 1982.
A seguito della visita della degazione di Fatah in Siria (“un
successo”, dice Zaki), durante la crisi del campo profughi di Yarmouk
attaccato dallo Stato Islamico, l’ufficio politico del partito riaprirà
in Siria. Eppure a guardare bene la visita non fu poi così di
successo: l’inviato dell’Olp, Ahmed Majdalani, pochi giorni dopo il
primo aprile, giorno in cui iniziò l’offensiva dell’Isis contro il
campo, fu smentito dall’ufficio centrale dell’Organizzazione per la
Liberazione della Palestina per aver annunciato un
coordinamento militare tra gruppi palestinesi e governo di Damasco.
Nessun coordinamento con Assad, tuonò l’Olp, che lo richiamò in sede.
Eppure oggi Fatah tenta il riavvicinamento alla famiglia
Assad dopo tre decenni di interruzione delle relazioni, mentre Yarmouk
vive quotidiniamente la sua tragedia: ancora occupato al 40%
dai gruppi islamisti rivali-alleati di al-Nusra e Isis, controllato a
nord e a est dai gruppi palestinesi, è tuttora terreno di scontri
frequenti tra jihadisti e combattenti palestinesi. La situazione
umanitaria è al collasso: secondo l’agenzia Onu Unrwa migliaia di
rifugiati vivono ancora in condizioni estremamente critiche, perché gli
aiuti non entrano più dal 28 marzo.
Una decisione, quella di riprendere le relazioni diplomatiche, che potrebbe derivare da diversi fattori. In primis,
il tentativo per Fatah di riguadagnare qualche punto di consenso tra la
popolazione palestinese, profondamente delusa dalla strategia politica
del partito di governo, accusato di fare gli interessi dell’occupazione
israeliana e di incapacità nello sfidare l’occupante (ultimo caso in ordine di tempo, il ritiro della richiesta di sospensione di Israele dalla Fifa).
In secondo luogo, l’interesse a entrare – seppur indirettamente – nel grande asse sciita guidato dall’Iran,
ad oggi il più efficace in termini militari e politici nella battaglia
contro lo Stato Islamico e i tentativi divisivi messi in campo dall’asse
concorrente, quello sunnita guidato dall’Arabia Saudita.
Ed è qui che entra in gioco Hamas: il movimento
islamista palestinese, che con Fatah ha dato vita ad un governo di unità
nazionale litigioso, diviso e inefficace, se da una parte ha tentato
negli ultimi tempi di riallacciare le relazioni con l’Iran (in passato
fornitore di armi al gruppo, via Egitto), dall’altra ha rotto i
rapporti con l’ex alleato siriano per schierarsi con i gruppi di
opposizione siriani, in primo luogo l’Esercito Libero Siriano.
Un errore grave, che ad Hamas è costato l’isolamento regionale dopo il
fallimento dell’Islam politico dei Fratelli Musulmani in Egitto: caduta
la Fratellanza, di cui Hamas è membro, il movimento si è ritrovato solo,
senza il sostegno di Damasco, prima sede dell’ufficio politico in
esilio e sostenitore della resistenza armata.
Un ruolo che Damasco riveste da decenni: tra i paesi che
hanno accolto più rifugiati palestinesi dopo la Nakba del 1948, ha
sempre giocato il ruolo di aiuto alla resistenza palestinese contro
l’occupazione israeliana, armando e finanziando gruppi ideologicamente
vicini e fornendo loro protezione durante l’esilio. E se negli
anni ’70 e ’80 fu rifugio per gruppi di sinistra e comunisti, come il
Fronte Popolare e il Fronte Democratico, nel 1999 ospitò Hamas cacciata
via dalle autorità giordane.
Con lo scoppio della guerra civile, quattro anni fa, i gruppi
palestinesi si sono spaccati tra chi è rimasto fedele ad Assad e chi ha
rotto i rapporti. Fatah e l’Olp hanno tentato l’accidentata strada della neutralità,
timorosi da una parte di perdere consensi per non aver dimostrato
vicinanza a Damasco e dall’altra di perdere l’appoggio dell’Occidente
schierato contro Assad. E oggi riaprono a Damasco, mettendo
ulteriormente in crisi chi ha abbandonato i rapporti con la Siria,
ovvero Hamas.
Oggi Yarmouk, sotto assedio dal dicembre 2012, è di nuovo l’ago della
bilancia. Per Fatah l’occasione di riavvicinarsi alla Siria senza
pestare i piedi a nessuno dei suoi sponsor internazionali.
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