di Chiara Cruciati
Su una cosa le parti sono
d’accordo: il cessate il fuoco. Come renderlo concreto è un altro paio
di maniche. “Siamo tutti d’accordo sulla necessità di una tregua ma
stiamo ancora discutendone i dettagli”, ha commentato Ghaleb al-Mutlak,
membro del movimento separatista Herak, del sud dello Yemen.
Secondo alcuni delegati presenti al negoziato Onu di Ginevra, i
ribelli Houthi hanno chiesto una dichiarazione di tregua umanitaria,
accettata dal governo ufficiale del presidente Hadi. Ma resta una
precondizione: Hadi pretende l’implementazione della
risoluzione Onu 2216, il ritiro degli Houthi dai territori occupati e
l’abbandono delle armi.
Da punto a capo. Il lavoro diplomatico del nuovo inviato delle
Nazioni Unite, Ismail Ould Cheikh Ahmed, che tanto ha faticato per
portare le parti in Svizzera, non si presenta per niente facile. Le
differenze tra i rivali sembrano inconciliabili. Non si sono nemmeno incontrati: meeting faccia a faccia con l’Onu, a porte chiuse, ma nessun dialogo diretto.
Una condizione dovuta anche alla posizione sciita: gli Houthi
non riconoscono il governo Hadi come legittimo e rifiutano di negoziare
direttamente con l’esecutivo. Meglio parlare con chi sostiene Hadi,
bombarda lo Yemen e muove i fili della guerra in corso in territorio
yemenita: l’Arabia Saudita.
Perché ad impedire un accordo pacifico, una transizione politica, che
metta fine alla crisi yemenita è proprio Riyadh che con l’operazione
“Tempesta Decisiva”, cominciata il 26 marzo scorso, intende garantire la
propria influenza sul paese. Ieri il leader Houthi, Abdel Malek
al-Houth, ha ripetuto che una soluzione politica sarebbe possibile, ma è
impedita dai sauditi e dalla loro agenda, imposta al tavolo delle
Nazioni Unite: “Non c’è niente che impedisce una soluzione politica nel
paese; la soluzione è disponibile ma i sauditi sono quelli che la
rovinano con la loro aggressione”.
Da decenni l’ingombrante vicino gestisce gli affari interni
dello Yemen, un paese povero che sopravvive grazie agli ingenti
finanziamenti sauditi. L’eventuale rafforzamento iraniano nel paese,
attraverso il movimento Houthi, preoccupa molto la famiglia Saud. Queste
le ragioni dietro i raid, continui e spesso volti a colpire civili
(2.600 i morti dal 26 marzo, secondo l’Onu, di cui 1.400 civili), e il
blocco navale e aereo imposto allo Yemen. Non entra nulla, non entra
cibo (lo Yemen importa il 90% dei beni alimentari che consuma), non
entrano medicinali, non entra carburante necessario sia al funzionamento
degli impianti elettrici che agli spostamenti interni. Dietro sta la
volontà saudita di spezzare le gambe al movimento Houthi, magari
provocando una sollevazione interna contro gli sciiti.
Secondo quanto riportato dalla Camera di Commercio yemenita, dalla
fine di marzo all’inizio di maggio la perdita in termini economici per
lo Yemen è stata di 13 milioni di dollari, a causa dei gravi danni
subiti dal settore industriale e commerciale. Molte fabbriche e
industrie hanno sospeso le attività, lasciando migliaia di lavoratori
senza un impiego. I prodotti di base hanno visto impennare i prezzi,
del 20-40%, il riso costa tre volte di più e un litro di carburante ha
raggiunto i 20 dollari. Le banche internazionali hanno chiuso i battenti
e molti dei finanziatori stranieri i rubinetti.
Alla crisi interna si aggiunge infatti il taglio degli aiuti internazionali: la
Banca Mondiiale ha interrotto il flusso di denaro nel paese e il
Congresso Usa ha stabilito in questi giorni il congelamento dei
finanziamenti allo Yemen, 12 milioni di dollari sospesi dall’agenzia
statunitense USAid per un anno. La giustificazione data in
un’intervista da un funzionario dell’agenzia ad al-Monitor è chiara:
“Non ci fidiamo dei partner sul terreno nella consegna degli aiuti”. La
fonte, anonima, ha lasciato però trapelare di più: dietro il congelamento ci sarebbe, di nuovo, l’Arabia Saudita.
“Sembra – a me e a molti che seguono le politiche dello Yemen – che
abbiamo ceduto alle decisioni dei sauditi. Sembra che i sauditi vogliano
schiacciare lo Yemen”.
Fonte
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