di Sonia Grieco
Ieri i caccia della
coalizione guidata dai sauditi sono entrati di nuovo in azione in Yemen,
colpendo le basi dei ribelli sciiti Houthi nella capitale Sana’a e
nelle province di Ibb, Saada e Lahj. Ci sono state vittime, ma il
bilancio non è ancora noto.
Mentre il Paese continua a essere bombardato e la crisi
umanitaria si aggrava, nel vicino Oman da giorni si tenta di negoziare
una tregua che potrebbe coincidere con l’inizio del Ramadan, a metà
giugno. E uno spiraglio si è aperto con il rilascio, lunedì, del giornalista americano Casey Coombs, nelle mani degli Houthi da settimane.
Un gesto di apertura, risultato dei colloqui indiretti tra i ribelli e
funzionari statunitensi e britannici, che, secondo quanto riferisce il
sito Middle East Eye (MEE), avrebbero prodotto la
disponibilità degli Houthi a ritirarsi dai territori (più probabilmente
da una parte) conquistati dall’inizio della loro avanzata (in linea con la
risoluzione delle Nazioni Unite), lo scorso autunno, in cambio della
cancellazione dalla lista delle sanzioni Onu. Per un’intesa del
genere serve il via libera del Consiglio di Sicurezza, ma i colloqui in
Oman, unico Paese del Golfo a non aver preso parte alla coalizione che
da due mesi bombarda lo Yemen, potrebbero riaprire il negoziato di Ginevra sponsorizzato dall’Onu, previsto per lo scorso 28 maggio, ma saltato prima ancora di iniziare.
Punta alla Svizzera, ovviamente, l’inviato Onu Cheikh Ahmed,
in visita a Riyad per trattare con i sauditi e gli esponenti del governo
yemenita in esilio, per convincerli ad ammorbidire le richieste
rispetto alla pretesa di un ritiro incondizionato degli Houthi come
presupposto necessario per sedersi al tavolo del negoziato. Secondo Al Jazeera, il presidente yemenita Abd Rabu Mansour Hadi si è detto pronto a parlare con i ribelli sciiti a Ginevra e i colloqui potrebbero aprirsi il 10 giugno, stando a quanto dichiarato da un funzionario Onu all’Afp.
Resta però da capire a quali condizioni e se Riyad è disponibile ad
accettare di buon grado una soluzione negoziata grazie alla mediazione
dell’Oman che ha stretti legami con l’Iran, il Paese rivale con cui
l’Arabia Saudita si contende l’egemonia regionale e che accusa di
foraggiare i ribelli sciiti che nelle ultime settimane hanno attaccato i
villaggi al confine con il regno dei Saud.
Per i sauditi gli Houthi sono una minaccia strategica, la
mano lunga di Teheran che preme proprio ai loro confini. Dal canto loro,
i ribelli sciiti rivendicano il ruolo politico che ritengono gli sia
stato negato dopo la cosiddetta primavera yemenita del 2011, che ha
portato alla fine del regime di Ali Abdullah Saleh i cui fedeli si sono
schierati a fianco del gruppo sciita. In Yemen è stato un
accordo di élite orchestrato dall’Arabia Saudita a mettere fine alle
rivolte e gli Houthi ritengono di essere stati esclusi. Per loro aderire
in maniera incondizionata alla risoluzione Onu 2216 dello scorso aprile
(ritiro da tutti i territori occupati) sarebbe “una sentenza di morte”, ha spiegato a MEO Adam Baron, del think tank pan-europeo European Council on Foreign Relations.
La diplomazia continua a lavorare e considerato il forte sostegno che
l’operazione militare a guida saudita ha raccolto nel regno, dove è
considerata una legittima difesa contro l’espansionismo iraniano nella
penisola, secondo alcuni analisti, per re Salman il Ramadan
potrebbe essere l’occasione di non perdere la faccia davanti ai sudditi.
Insomma, i raid si fermerebbero per la festività religiosa e questo
renderebbe meno complicato per il nuovo monarca sospendere l’impresa
yemenita.
Una sospensione dei raid che dal punto di vista umanitario è indispensabile. Gli
analisti parlano di un ritorno all’età della pietra in Yemen, il Paese
considerato il più povero del Medio Oriente, complice anche
l’intransigenza saudita nel far passare gli aiuti. Riyad complica con la
burocrazia il passaggio i carichi di carburante e di cibo, costringendo
le Ong a rinnovare i permessi con una certa frequenza. La scorsa settimana Oxfam
ha dichiarato che due terzi della popolazione non ha più accesso
all’acqua potabile, con il rischio del diffondersi di malattie come il
colera o la dissenteria. Il 60 per cento degli yemenita ha bisogno di aiuti umanitari.
La crisi ha reso la popolazione vulnerabile e c’è chi punta il dito
contro l’Arabia Saudita, accusata di usare la leva della crisi
umanitaria per spingere gli yemeniti a ribellarsi contro gli Houthi.
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