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13/02/2020

30 anni fa la fine naturale del patto di Varsavia

Il trentennale è trascorso ormai da un bel po', tuttavia la opinione che segue merita una lettura. Non tanto per l'interpretazione proposta dei motivi che hanno condotto il blocco socialista alla disgregazione - trattati con troppa superficialità e filtrati con lenti tutte interne al sistema valoriale dell'occidente capitalistico - quanto per le domande che pone nel tentativo di ipotizzare un rilancio.

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Esattamente tre decenni fa, con la rottura delle barriere che impedivano agli abitanti di Berlino Est di andare ad ovest, cominciava l’inizio di una precipitosa fine per il patto di Varsavia (scioltosi, formalmente, poco tempo dopo). Il muro di Berlino era stato costruito, in pochissimo tempo, nell’agosto del 1961 per marcare una netta differenza di confine tra due stati tedeschi e due regimi globali (l’est e l’ovest). Pochi giorni dopo Krusciov, allora ancora segretario del Pcus, si espresse sul muro in questo modo: “lo sfonderanno da ovest per venire da noi”. Era un’epoca in cui su differenti aspetti l’est poteva ancora pensare di competere con l’ovest su tenore di vita, sistema di protezione sociale, evoluzione tecnologica.

Non deve sfuggire a nessuno perché la storia sia andata, totalmente, al contrario rispetto alla previsione, legittimamente spavalda, di Krusciov. A fine anni ’80 le società dell’est erano complessivamente molto più povere di quelle dell’ovest, i sistemi di protezione sociale per quanto estesi erano obsoleti e privi di risorse, la sfida tecnologica era persa. Possiamo dire che l’est ha potuto prolungare l’agonia di un sistema economico già chiara negli anni ’60, di cui la vicenda cecoslovacca fu una spia importante, grazie alla crisi del petrolio dell’ovest. Crisi che permise, al patto di Varsavia e principalmente all’Urss, di esportare negli anni ’70 petrolio a prezzo conveniente.

I cittadini della Germania est che si riversarono all’ovest sfondando, letteralmente, il muro rappresentarono una triplice sconfitta per il patto di Varsavia: di immaginario (la gente guardava la tv dell’ovest a prescindere da stupidi divieti e ne desiderava lo stile di vita), legata al tenore di vita (perché si può dire quello che si vuole ma a est era difficile rifornirsi persino sui generi alimentari mentre a ovest i negozi erano stivati) e anche legata all’idea di democrazia (perchè la democrazia liberale diventa accettabile per le persone quando l’alternativa è la repressione capillare).

Certo, qualcosa cambierà velocemente e come dirà un ex operaio della DDR anni dopo “prima potevo dire al caporeparto quello che volevo, ma se criticavo il governo finivo in galera; oggi posso dire cosa voglio del capo del governo ma se dico qualcosa al caporeparto perdo il lavoro e finisco sul lastrico”. Con la DDR si comprava il consenso con bassi ritmi di lavoro, e la possibilità di portare qualcosa a casa dei beni collettivi, mentre con la BRD unificata era ristabilito l’ordine autoritario ed efficiente del lavoro. Ma il punto essenziale è che l’est implode sia perché non riesce più a sostenersi nella globalizzazione sia perché, come sistema economico-politico, perde totalmente la fiducia dei propri cittadini.

Quando si parla di quel periodo c’è sempre qualche macchietta che la butta giù in battuta con “si, c’è stata poca repressione senno’ lo vedevi...”. Bisogna ricordare che la Germania est, all’epoca della caduta del muro, contava 16 milioni di abitanti. Due milioni, quindi un abitante su otto, era collaboratore della Stasi, i servizi segreti. Questo per capire che la distanza della popolazione della Germania est dal regime era ormai così grande da vincere il terrore di una dispositivo di repressione tanto capillare. Del resto finiva un regime autoritario, povero, persino altamente inquinante. Per non dire dell’aspetto tecnologico. Come racconta un generale dell’Armata rossa in un suo libro di memorie, quando a Mosca i personal computer non li avevano al Cremlino, a New York erano presenti nelle agenzie di viaggio.

Il problema non sta tanto in un regime di socialismo che è finito. Ma nella estrema difficoltà di riannodare i fili di una concreta alternativa socialista o comunista che sia, ben piantata nel presente e nel futuro. Quello che è stato non è più ricomponibile. Ma vengono solo delle domande da fare: in un mondo irrimediabilmente tecnologico come è possibile, detto in una battuta, un algoritmo comunista? Come le tecnologie della comunicazione, e non solo, possono essere non proprietarie e orizzontali? Come socializzare i mezzi di produzione quando questi non solo fanno parte di quella cosa immateriale che è il sapere ma sono anche globali? Come l’economia può essere ben oltre quel rudere di socialismo reale di fronte all’insostenibilità del capitalismo? Quale tipo di regime politico può dirsi socialista o comunista (non entriamo nella letteratura patristica) per il futuro? Come provare a salvare il pianeta liberandoci del mezzo di produzione egemone, il capitalismo, degli ultimi 250 anni?

La caduta del muro di Berlino ci pone questo genere di interrogativi. Sono quelli che guardano avanti. Il primo ciclo aperto dalla rivoluzione d’ottobre, che riuscì a liberare più di mezzo pianeta dal capitalismo, si è chiuso proprio a Berlino dove, a suo tempo, avrebbe voluto arrivare il grande Lenin. L’apertura di un secondo ciclo dipende dalla capacità, prima di tutto, di immaginare l’immensa vastità del ventunesimo secolo.

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