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07/07/2022

Cynic - 1993 - Focus

A volte l’attesa monta per lungo tempo, prima che si compia un destino che, in qualche modo, è stato già previsto. Quando i floridiani Cynic arrivano al loro esordio, “Focus”, è il 14 settembre 1993 e alle spalle hanno già numerosi demo, man mano più promettenti, e soprattutto un ruolo di rilievo nella creazione di “Human” (1991) dei Death: il chitarrista e cantante Paul Masvidal e il batterista Sean Reinert hanno contribuito già a cambiare la storia del death-metal, anche se non a loro nome, aumentando il tasso tecnico e le tendenze progressive in un ambito che fino a pochi anni prima si nutriva di zombie, cadaveri e gore.

Gli appassionati potevano dirsi quindi già pronti per “Focus”, presumibilmente un’evoluzione del death-metal che approfondisse l’approccio di “Human”, rendendo più personale e creativo il sound già trapelato dai demo. Si sbagliavano.

A produrre l'atteso esordio arriva Scott Burns, già impegnato con gli Assück, impegnati in un grindcore senza compromessi, e con le superstar del death-metal, i Cannibal Corpse, oltre che con molti altri estremisti, come Cancer, Deicide, Death, Gorguts, Devastation e Obituary. Uno che non rinuncia a investire l’ascoltatore con la potenza della musica estrema, ma che ha dimostrato anche, con gli Atheist soprattutto, di poter dare spazio alle finezze delle composizioni senza sacrificarne troppo l’impatto. Sarà proprio questo che succederà con “Focus”, un album che non mancherà di spiazzare molti degli appassionati.

Uno degli elementi più discussi riguarda la voce, o meglio il modo in cui questa viene declinata nei brani. La quota di growl e di aggressività bestiale viene lasciata al tastierista Tony Teegarden, mentre il già citato Masvidal, si dice per paura di causare danni permanenti alle proprie corde vocali, opta per uno stile assai più eccentrico, cantando attraverso una specie di vocoder che conferisce al tutto un’aura androide e futuristica, incorporea e aliena. Il vocoder di Masvidal è probabilmente l’elemento più scioccante del mix, peraltro presentato sin dai primi secondi di “Veil Of Maya”, nei versi iniziali:

In Maya's grip illusion transforms verity
Perceiving thus a delusive world of duality

Ma fuori dall’impatto di un vocoder dove proprio non ci si aspetta, e superata la sorpresa che nel frattempo la band proponga un devastante death-metal tecnico e con spunti progressivi, è anche il significato di questi primi versi a suonare come spiazzante. L’aura filosofica, la dimensione spirituale protagonista di questo testo, che anticipa poi un intero album fatto di riflessioni ben lontane dall’ultraviolenza di molti colleghi del metal estremo, è un altro importante elemento di rottura: poesia, meditazione, introspezione, misticismo, religione come temi centrali di un album che cerca di costruire invece di distruggere, di comprendere laddove tanti altri odiano.

Il terzo shock nel primo minuto di ascolto è quello di una lunga parentesi fusion che prende il sopravvento, guidata dalle acrobazie al basso di Sean Malone. Un gioco di opposti, non a caso, che costringe l’ascoltatore a continue operazioni di riorientamento, superando i confini di stile e di contenuto alla ricerca di una chiave di lettura. 

Tutto fuorché una mera provocazione, “Veil Of Maya” introduce un ottetto di brani che sulla contrapposizione e la contaminazione fonda tutta la sua originalità, ben oltre quanto visto nei demo e persino nel succitato “Human”. “Celestial Voyage” è una prosecuzione naturale del percorso, mentre “The Eagle Nature”, più torbida e aggressiva, sembra volersi affrancare dall’algida eleganza delle parentesi progressive e fusion, tanto è violento il suo inizio, salvo poi scoprire la melodia nel bombardamento death-metal, in slanci prog-rock e soprattutto in una coda onirica che richiama persino il Badalamenti di Twin Peaks, in chiusura.

Non si tratta quindi di una spezia per ingolosire i curiosi, quella di una rocambolesca fusion, ma di un mezzo per veicolare una nuova estetica dell’estremismo, senza che l’aspetto jazz-prog risulti comprimario di quello metal, ma delineando due co-protagonisti. Quand’anche in scaletta si propende di più verso l’aggressione brutale, come in “Uroboric Forms”, con un frangente da infarto verso il finale, subito l’equilibrio viene ristabilito dalla strumentale “Textures”, la quale senza le voci può ancor di più sfumare i confini stilistici, facendo suonare quasi naturale il continuum che dalla febbricitante fusion iniziale porta al devastante prog-death-metal finale, chiuso in un gioco di riflessi minimalisti. Lo stellare assolo di chitarra di “How Could I”, prima di una coda sotto forma di danza folk-metal, è quindi una chiusura che rientra pienamente nel linguaggio scelto da Masvidal e soci e sembra concludere il discorso aperto dallo squarcio del velo di Maya iniziale. Gli ultimi versi dell’album sono dedicati a un’altra riflessione:

Love's too often only a dream
If I am harsh and unkind to myself
So I share these attitudes with you
For in this spewing cavern of pride
How could I!

Il problema dei Cynic di “Focus” è quello di chi supera il proprio pubblico, quello al quale sono stati presentati basandosi su un incasellamento un po’ frettoloso: la scelta più ovvia è inserirli nel calderone del death-metal della Florida. Finiscono per dividere delle date con i già citati Cannibal Corpse, prodotti sempre da Scott Burns, e inevitabilmente sono poco apprezzati dal pubblico, giunto sotto palco più per farsi colpire dall’efferatezza brutale che dalle rivelazioni vediche. Anche per questo i Cynic decidono poco dopo di sciogliersi, ennesimo caso d'insuccesso dovuto alla poca lungimiranza degli appassionati contemporanei. Sarà il tempo a rimediare, conferendo alla formazione di Miami un ampio riconoscimento presso i tanti ascoltatori e formazioni che hanno voluto superare i presunti confini dell’estremismo metal.

Quando tornano sulla scena nel 2007 sono accolti come dei pionieri e, lungo una seconda parte della carriera piena di pause e ripensamenti, nonché cambi di formazione e tragici lutti, i Cynic riescono finalmente a ricevere il plauso che già con (soprattutto con) “Focus” avrebbero pienamente meritato. Nulla di quello pubblicato dalla band in seguito ha eguagliato lo stravolgimento dell’esordio, pur conservando l’idea di una musica senza dei chiari confini.

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